Articoli con tag cambiamento

piazza tahrir, piazza montecitorio

Gli avvenimenti di questi giorni, conseguenti all’elezione del Presidente della Repubblica (Italiana) mi hanno fatto venire in mente alcune cose successe negli ultimi tre anni, in varie parti del mondo (Medio Oriente, Penisola Arabica, Spagna, Stati Uniti, e forse qualche altrove che sfugge all’occhio globale dei media).

Ariele ha provato a ragionare sulla “polis”, da ultimo in un’interessante Conference: Presenti Sommersi Futuri Presenti, all’interno delle quale ho partecipato, fra l’altro ad un workshop su “2.0 e comunità”. Fra i pensieri emersi mi sembra sia molto d’attualità il tema della partecipazione politica tramite il “web 2.0”: è sin troppo facile andare alle pratiche del Movimento Cinque Stelle, criticandone gli aspetti manipolatori e regressivi dal punto di vista dello sviluppo di una coscienza civile, ma alcuni aspetti a mio parere meritano un approfondimento, evitando i toni liquidatori apparsi negli ultimi giorni a sancire una “sconfitta” della rete, dovuta alla capacità dell’apparato politico tradizionale di riappropriarsi dello “scettro” cadutogli improvvisamente di mano.

Tornando al titolo del post, confesso che esso nasce dall’osservazione dei vari video “virali” che descrivevano il comportamento della “piazza” di fronte ai vari passaggi di quello, da qualcuno definito uno “psicodramma”, che è successo nelle giornate precedenti l’elezione di Napolitano. Ad un certo punto mi è scappato un “ma è come Piazza Tahrir” nel senso che l’impressione che da uno “sciame” di comunicazione si sia creato in maniera spontanea un’aggregazione di corpi accomunati da un bisogno fondamentale: manifestare contro l’esistente e ciò che si stava costituendo: io stesso vi sono stato in parte coinvolto, anche nella mia città (Genova) in genere poco “movimentista” (e “movimentata”) si è creata una piccola piazza indignada.

Si sta affermando anche in Italia il modello di Tahrir, di “occupy” di “puerta del sol e del m13”? In un loro recente saggio Negri e Hardt si sono chiesti come mai in Italia non si fosse fino ad oggi affermato un movimento paragonabile a quelli sviluppatisi nei paesi arabi o in Spagna o in Usa etc, dandosi questa spiegazione: la capacità del sistema politico è ancora forte, e quindi è ancora in grado di contrapporre un modello di azione politica proprio del partito, sia pure adattato ad una concezione meno rigida del passato, assieme . E poi in Italia ci sarebbe una tendenza patologica a rivolgersi alla figura “paterna” una mancata liberazione dal complesso edipico a livello di “cultura nazionale”, anche in quest’ultimo frangente, l’arrivo di Beppe Grillo a riportare ad un ordine gerarchico le schegge impazzite, va in questa direzione.

In un successivo post vorrei allargare il ragionamento partendo dall’analisi di Freud (“Psicologia delle Masse”) fino ad arrivare a Manuel Castells.

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Un tuffo nella storia e nel futuro di Leaderlessorg

Oggi lunedì 11, dalle 12 alle 14, abbiamo in Ariele un incontro del gruppo leaderless. Incontro in carne ed ossa dopo molto skype, ma soprattutto un’occasione di condivisione di quanto fatto fino ad oggi e di possibili nuovi start-up. Partecipano Paolo Bruttini, non-leader storico del gruppo, Fabio Brunazzi in un breve intermezzo italiano tra Panama e la East Coast, Stefano del Bene, uomo di  mare da Genova, Paolo Magatti, new entry di un certo peso e, ovviamente, Elisabetta Pasini animatrice e “padrona di casa” dell’incontro. Abbiamo inoltre invitato alcune possibili new entry sensibili ai nostri temi, alla ricerca di nuove sinergie dentro e fuori il gruppo.

Il programma prevede una serie di interviste narrative incrociate di Paolo Magatti ai membri “più anziani” del gruppo e sarebbe dunque una occasione importante per poter capire come abbiamo lavorato fino ad ora e cosa possiamo immaginare per il futuro. Da questo incontro può uscire fuori una prima riflessione sulla storia di Leaderlessorg e nuovi semi da coltivare per i progetti futuri.

Cercheremo di lasciare tracce del nostro incontro sui social network, in particolare twitter. Per interagire con noi in tempo reale scrivete su twitter @fabiobrunazzi

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WHAT IS ENGAGEMENT?

Un libro trovato per caso, curiosando tra gli stand della Fiera del Libro di Torino; mi aveva incuriosito il titolo, “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”, uno di quei titoli che ti fanno pensare a una grande bufala o a una divertente ironia (alla fine si rivelò più la seconda). Decisi di correre il rischio, anche perché volevo regalarlo a un amico napoletano; e prima di darglielo l’ho letto pure io.

I due protagonisti, dai nomi indicativi di Stefano Lavori e Stefano Vozzini, per poter commercializzare una brillante idea che sono riusciti fortunosamente a realizzare nel garage abusivo di casa, devono combattere, nell’ordine, con genitori ultraconservatori e iperprotettivi, bancari e commercialisti, vigili di quartiere e negozianti, camorristi, e verranno alla fine, ovviamente, sopraffatti dagli eventi, relegando il loro sogno di riscatto tra le ingenuità dell’incoscienza giovanile. Nel frattempo, la loro idea viene lanciata con successo sul mercato dai giapponesi. Dunque, parrebbe suggerire la morale, alcuni nascono nel posto giusto al momento giusto, e altri nel posto sbagliato, e questo fa la differenza. Ma è davvero così?

In queste ultime settimane mi è capitato di partecipare ad alcune interessanti iniziative di riflessione di gruppo sul cambiamento, in particolare sull’influenza del cambiamento sull’immaginario sociale.

In particolare, il 19 maggio ho partecipato a Londra a una matrice di Social Dreaming organizzata dal gruppo londinese che fa riferimento a Gordon Lawrence, che del Social Dreaming è l’inventore, e dal Tavistock Institute for Human Relations. Obiettivo, indagare sui riflessi che il movimento di Occupy London ha sull’immaginario sociale, partendo da una domanda stimolo: How might the ‘Occupy’ movement occupy us?, per esplorare attraverso una matrice di Social Dreaming se e in che modo l’esperienza di psicosocioanalisti dell’organizzazione possa aiutare nella comprensione di un fenomeno recente e contemporaneo come quello del movimento globale di Occupy.

Qualche settimana prima, il 8 maggio, avevo condotto in Ariele un incontro di Listening Post, che un po’ sinteticamente si può descrivere come un gruppo di ascolto e di riflessione sul cambiamento, in questo caso in Italia, e sulle ansie, paure e speranze che il cambiamento ingenera.

Le due esperienze, pur nella loro diversità – di luogo, Londra e Milano, di composizione del gruppo, di obiettivi del lavoro – hanno messo a fuoco con chiarezza un elemento comune: cambiamento oggi significa crisi globale di un sistema che potrebbe essere anche una bella nuova opportunità. Però, si fa molta fatica a immaginare un futuro, sono ancora troppi gli elementi di incertezza, e il nuovo che avanza, nel caso specifico il movimento Occupy che è appunto un movimento globale, ha tanti aspetti oscuri e minacciosi; aspetti che nella Matrice di Social Dreaming sono stati espressi attraverso i sogni da bacelli misteriosi e inquietanti che crescono nel corpo di donne gravide, e quando vengono generati si trasformano in cavallette.

In tutto questo il locale gioca un ruolo determinante: rappresenta la comunità perduta, i legami solidali da riscoprire, il passato come un porto sicuro, la rinascita di relazioni autentiche come ancoraggio al comune sentire; ma questa visione nostalgica non arriva mai a far germogliare un nuovo pensiero.

Ecco dunque che la dinamica tra globale e locale pare avvitarsi in un loop da cui è non è facile uscire, nel quale la strada potenzialmente rivoluzionaria che i nuovi movimenti e le nuove tecnologie paiono promettere, e ormai anche indicare con forza (non dimentichiamo l’impatto e il ruolo di amplificazione globale che i social networks hanno avuto nella primavera araba del 2011, nel movimento de los indignados, in Occupy), ingenera un senso di perdita e di smarrimento. Prevalgono l’ansia, lo smarrimento, il senso di perdita, e il locale si trasforma, da un luogo di potenziale sperimentazione creativa che si alimenta attraverso la forza generativa del “genius loci” e dei legami comunitari solidali, in uno sguardo all’indietro, in cui la comunità è il luogo mitico dei legami perduti da ricostruire. E allora come si può cercare di coniugare oggi questi due aspetti, la spinta rivoluzionaria dei movimenti globali, che spaventa, e la pratica dei “laboratori creativi” del cambiamento sul territorio?

Forse cercando nuovi significati per la parola “engagement, il cui senso contiene sia la possibilità di una risposta individuale nel prendersi una responsabilità diretta sul contributo personale per indirizzare il futuro, sia la necessità di un coinvolgimento emotivo nella relazione con gli altri, perchè la risposta porti a una progettualità condivisa.

 

 

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Rivoluzione dura

Quando abbiamo cominciato a scrivere questo blog si parlava chiaramente già di P2P. Eravamo convintissimi di quanto sostenesse Bauwens, ovvero che la Peer production non fosse soltanto una tecnica produttiva per lo sviluppo di software e tecnologia quanto invece che ci trovassimo di fronte a un nuovo e rivoluzionario paradigma sociale, a un nuovo modo di produzione. L’Open Source come modello di business allargato potenzialmente a tutti i settori.

Eppure questa convinzione non riusciva per me ancora a trovare un riscontro pratico, in termini di implicazioni nella vita quotidiana, al di là che esistesse un software libero e gratuito pronto a soddisfare le esigenze dell’utenza generica. Non riuscivo nella mia mente e nelle esperienze di tutti i giorni a fare il salto, dal software all’hardware. Cercavo quell’esempio che mi facesse capire come la gente potesse davvero cooperare per la produzione di oggetti fisici (hardware) strumenti che concretamente cambiano la vita quotidiana. Poi ho visto questo video:

E mi è piaciuto. E l’idea piace a molti visto chele fiere del movimento dei Makers si stanno espandendo un pò in tutto il mondo. DIY (Do It Yourself) è uno slogan che ha portato allo sviluppo e alla distribuzione delle stampanti 3D, per creare  qualsiasi oggetto plastico a partire da un disegno grafico. Una piccola azienda grazie a queste nuove macchine sta offrendo la possibilità al cliente (negozi di giocattoli ma anche gente comune) di disegnare e produrre giocattoli a richiesta.

Un’altra rivoluzionario scoperta ha un nome e un padre tutti italiani. Si chiama Arduino. Arduino è una piattaforma open-source per applicazioni elettroniche creata per agevolare il lavoro di artisti, designer, hobbisti, e chiunque sia interessato a creare oggetti o ambienti interattivi. Arduino può percepire l’ambiente, riceve l’input da una varietà di sensori e può influenzare l’ambiente circostante controllando luci, motori ed altri attuatori. Con la scheda si possono creare oggetti interattivi senza bisogno di un grosso investimento dal momento che le schede possono essere costruite a mano o acquistate già assemblate (al prezzo di 20$) e il software può essere scaricato gratuitamente. I disegni di riferimento dell’hardware (file CAD) sono disponibili sotto una licenza open-source, ma liberi di essere adattatati alle esigenze del costruttore.

Prima le macchine manipolavano bit, ora sono passate agli atomi. Dopo che Microsoft e Apple (ma ricordiamoci anche della Olivetti) hanno lanciato la rivoluzione digitale da un garage, cosa ci possiamo aspettare da un esercito di anonimi costruttori che ha iniziato a giocare con le nuove tecnologie per costruire oggetti fisici?

Industrial productivity can be achieved on a small scale?

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Progetti e gelati

Mi sto preparando per il prossimo colloquio di Ariele, Il coraggio del futuro, in cui condurrò insieme a Elisabetta Pasini il Workshop Apprendere l’innovazione dai giovani il prossimo 22 ottobre. La ricerca in rete mi ha condotto a questo bell’articolo di Carmen Leccardi che riflette su come cambia la concezione del tempo e della progettualità nell’età dell’incertezza.

Poiché “il futuro è lo spazio per la costruzione del progetto di vita” (p.1) cambiano molte cose se cambia la nostra concezione di futuro. Infatti quando l’incertezza supera una certa soglia  e citando Luhman, il futuro non ha più solide radici nel presente, allora fare progetti produce molte difficoltà. Il futuro si costruisce come una sequenza di eventi casuali che rendono sempre di più difficile portare a termine i progetti così come li abbiamo costruiti. Il superamento delle condizioni di certezza e prevedibilità (figlie della prima modernità), comportano una radicale revisione dei modi attraverso i quali noi costruiamo la nostra vita personale e professionale. Il futuro scompare, e si espande il presente che diventa il luogo in cui il soggetto compie un’esperienza che si autoregge: “ora ci si aspetta che (i periodi di tempo, ndc) traggano il proprio senso, per così dire, dall’interno: che si giustifichino senza alcuni riferimento al futuro o con riferimenti soltanto superficiali” (p.3). La citazione di Bauman conduce all’idea che per i giovani e per tutti noi il tempo si costruisce come una sequenza di eventi casuali che si assommano e acquisiscono senso solo attraverso una visione retrospettiva, che li unisce in una narrazione rivelatrice di significati. Appare chiara la “consunzione dell’idea di progetto” (p. 6) con il venir meno della continuità temporale.

Ho riflettuto su temi molto simili quest’estate in occasione della Festa della Scuola Coop, quando ho conversato con Alberto De Toni. All’autore dell’ottimo Auto-organizzazioni ho chiesto cosa ne pensava delle Leaderless Organization, il tema che ci sta a cuore in questo blog. La novità – dichiara De Toni – è rappresentata oggi dall’emergenza dal basso. Le organizzazioni nella complessità generano nuove energie ed opportunità dalla combinazione imprevedibile di risorse, anche alla base della piramide. Viene meno l’idea della progettualità organizzativa solo come processo top down: l’emergenza dal basso è generatrice di progettualità per così dire istantanea.

Il nuovo management deve imparare come gli adolescenti della Leccardi alle prese con un gelato, a concentrarsi su un’area temporalmente limitata per imparare a vivere il tempo come campo unificato soggettivamente controllabile. Le mete distanti temporalmente sono irraggiungibili ed è preferibile una visione di breve che consente di vivere le situazioni come chance più che come impedimenti. Pragmatismo, umiltà, apertura sono le doti che il mondo nuovo andrà premiando.

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Indignazione, 2014

–       Per la prima volta, sì per la prima volta. Lo faremo per la prima volta. Una protesta clamorosa,

  • Ne parleranno tutti. I politici, la stampa. La gente nelle piazze. Saremo i primi.

–       Abbiamo sempre fatto gli scioperi

  • Sì, ma per difendere i nostri diritti, quelli dei lavoratori. Mai così, come una sfida frontale.

–       Una sfida alla proprietà, ai dirigenti.

  • Parla piano… mai così. Un attacco, un’indignazione collettiva.

–       Una sfida per difendere l’azienda, dai padroni, dagli azionisti. E’ assurdo

  • Sì è assurdo. Ma bellissimo. Una sfida contro l’incompetenza, la malafede.

–       Perché devono capire che basta, hanno stancato. Far fare carriera solo agli amici. Alle amanti. Non affrontare i problemi.  Non far le cose che vanno fatte.

  • Come trattano le donne poi… Una donna va bene se è una madre o una puttana.

–       Io ho deciso di rimanere qui. Non me ne sono andato 7 anni fa come… come si chiamava?

  • Ah…non mi ricordo. Credo sia a Montreal, ha aperto un negozio, mi ha scritto. E’ felice.

–       E’ felice…

  • Io non sono felice. Come si fa in queste condizioni…

–       Io ho una laurea ed un dottorato, ma qui dentro non conto nulla.

  • Perché non me ne sono andato? Avrei dovuto lasciarlo questo Paese.

–       Non conta il merito, la volontà, l’onestà. Guidano le loro Audi. Camminano su mocassini di marca. Scrutano allo specchio i loro volti glabri. L’alito sa di eucalipto.

  •  Ma è tutto un sistema. Sono così perché fuori è così. Non solo da noi.

–       Infatti. Ci siamo spinti troppo oltre. La gente non si riconosce più.

  • Dici così perché non guadagni a sufficienza. Se tu avessi più soldi in tasca, ti andrebbe benissimo questo sistema.

–       Sarei arrabbiato e stressato com’era mio padre. Schiavo del suo narcisismo. Consumatore, infelice e inconsapevole

  • Allora come faremo?

–       Occupiamo l’azienda. La facciamo funzionare noi. Parliamo con la proprietà e li convinciamo.

  • Che esiste un altro modo. Glielo facciamo vedere che esiste.

–       Qualcuno ci è già riuscito non siamo soli

  • Dobbiamo crederci. Correremo dei rischi.

–       Un altro bambino abbandonato in macchina.

  • E’ terribile, quella storia. Perché?

–       Sacrificare innocenti, per chiedere clemenza agli dei.

  • Noi non siamo più innocenti.

–       Siamo diventati adulti.

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Chi sono io?

Mentre rispondo a offerte di lavoro in giro per il mondo (lavorando su yachts ho circa il 73% della superficie terrestre come campo d’azione), mi chiedo cosa stia cercando davvero, se l’essere flessibile e pronto a partire per qualsiasi destinazione nasconda una confusione mentale e di identità. Passo moltissimo tempo a leggere e rispondere a offerte, su siti specializzati, frequento annunci di forum, insomma surfo la Rete per cercare un posto dove surfare veramente le onde. Un giorno fremo perchè mi assumano in Indonesia, un altro sogno le aragoste e il clima malinconico della Nuova Scozia e del Maine, un altro ancora spero di essere su un catamarano che organizza safari per kitesurfisti a Tobago. Gli annunci di lavoro su internet sono un bel modo per far correre l’immaginazione.

Come usiamo la tecnologia in relazione alla vita e alla professione che svolgiamo? Per alcuni la Rete e i suoi supporti tecnologici sono dei moltiplicatori di identità e di opportunità per altri uno strumento attivo di costruzione e mantenimento di un’ identità che è molteplice. Da un lato abbiamo quindi una dispersione e frammentazione della personalità, , potenzialmente spaventosa, dall’altro un collage di parti di sè che possono coesistere e dar conto di una complessità ineliminabile. In che modo le mie differenti entità digitali rispecchiano le mie esigenze e l’immagine che voglio dare di me? E’ tutto veramente possibile?

Credoche su questo terreno si stia già giocando una sperimentazione rapidissima, sono gli stessi individui a giocare e a giocarsi seguendo spinte più o meno inconsce e inconsapevoli. Avere differenti identità è segno di ipocrisia o di falsità? O una risorsa per far emergere il lato di sè più appropriato a seconda dei contesti e degli interlocutori? Oggi mi sembra che siamo di fronte a un gioco teatrale, dove indossiamo maschere ma soprattutto possiamo sviluppare queste maschere, attraverso interfacce digitali, suoni, foto, video. Sviluppando il profilo di un social network mettiamo in evidenza peculiarità o mostriamo quello che vogliamo di noi. Si può addirittura modificare il proprio profilo a seconda dell’offerta di lavoro cui si decide di rispondere, come un tempo si facevano limature e tagli sul CV.

Attraverso la ricostruzione costante di sè, quotidiana nel caso dei social network, possiamo  rivitalizzare strati dimenticati, trascurati della nostra esperienza passata, riunificare campi dell’esperienza che apparivano come scissi, separati. Oppure semplicemente apparire come desideriamo che gli altri ci vedano, quindi immaginarci.

Dove trovare un contenitore per tutte queste identità e parti di sè attivate nelle interazioni social? Credo che la rete stessa possa portare delle soluzioni a questi problemi. Iteragire attraverso social media ispira una certa riflessività su se stessi e su quello che sta succedendo, il tutto attraverso un modalità immediata e spontanea.

Chi sono io? Dipende da chi me lo domanda.

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Hyper Old e Hyper New

“Odio i viaggi e gli esploratori….”: inizia così Tristi Tropici di Claude Levi Strauss, il più grande racconto di viaggi dell’ultimo secolo. Avevo diciassette anni quando ho letto Tristi Tropici, e da allora nessuna scienza e nessun racconto sono mai riusciti ad affascinarmi quanto l’antropologia, con tutto lo straordinario serbatoio di immaginazione costituito dalle diverse soluzioni che l’uomo ha saputo trovare nel corso della sua storia per risolvere gli stessi problemi. Vorrei quindi dedicare questo primo post del nuovo anno a una piccola pillola del pensiero di uno dei più grandi maestri del pensiero antropologico: alcune riflessioni sulle Lezioni Giapponesi di Levi Strauss pubblicate di recente da Rubettino, il più bel regalo di Natale che ho ricevuto quest’anno.

Levi Strauss tiene nel 1986 tre lezioni alla Fondazione Ishizaka di Tokyo, dal titolo: L’antropologia di fronte ai problemi del mondo moderno. I temi che affronta sono ancora oggi, a distanza di oltre vent’anni, di straordinaria attualità.

L’antropologia può essere paradossalmente definita come una scienza dei frammenti. Il mondo occidentale si è autoproclamato nel corso degli ultimi secoli come la civiltà del progresso, attraverso lo sviluppo, che tendiamo a considerare illimitato, della scienza e della tecnologia da una parte, e delle più “nobili” tra le scienze sociali dall’altra. Storia, filosofia, diritto, sono tutte dottrine che aspirano a individuare leggi e regole universali partendo da una visione autoriferita dei grandi macro-fenomeni sociali: bene e male, verità e bellezza, etica ed estetica, diventano così grandi imperativi morali attraverso i quali valutare e giudicare il mondo.

L’antropologia si sviluppa invece inizialmente partendo da una sorta di “curiosità da antiquario”: scienza coloniale per eccellenza, nasce dalla scoperta di nuovi mondi che hanno usi e costumi diversi; e, poiché le grandi discipline classiche tendono a trascurare i dettagli per concentrarsi sulla celebrazione dell’insieme, l’antropologia nasce in modo quasi casuale dai racconti di viaggi dei primi esploratori, commercianti, missionari, che raccoglievano testimonianze minime, descrizioni del quotidiano, dettagli problematici, frammenti pittoreschi, che spesso si rivelavano distonici rispetto alla coerenza forzata del quadro generale. Tutto ciò serviva, inizialmente, per trovare conferme alle proprie credenze su quello che veniva considerato una sorta di “passato dell’umanità”: e dunque i diversi tipi di evoluzionismo che ne sono derivati consideravano ogni modello sociale diverso da quello occidentale come una rappresentazione del passato oppure, nel migliore dei casi, come un percorso progressivo di avvicinamento all’unico modello possibile.

Ampliando il punto di vista risulta però evidente che tutte queste società considerate “arretrate” non possono essere considerate come scarti dell’evoluzione, ma che sono piuttosto, ognuna di esse, un modo originale e diverso di elaborare forme di vita sociale. Molte di queste società vengono definite “società fredde”, poiché sembra che in qualche modo si sottraggano alla storia sterilizzando al loro interno tutto ciò che potrebbe ingenerare meccanismi di cambiamento tali da causare un divenire storico immediatamente osservabile. Esse appaiono dunque, a un primo sguardo, immutabili e sempre uguali a se stesse, mentre, all’opposto, le nostre società “calde” sono caratterizzate da un costante mutamento.

Levi Strauss definisce le società calde come società ad alto tasso di entropia, causata da scarti sempre più grandi al loro interno provocati dalle crescenti diseguaglianze economiche e sociali tra i membri. Le società primitive sono invece società a bassa entropia, fondate su meccanismi egualitari di condivisione che tendono a conservare indefinitamente la condizione iniziale, e per questo sembrano viste dall’esterno società senza storia; tuttavia, esse sono concepite dai loro membri come “capaci di durare”.

Un altro tasso di entropia logora infatti i rapporti sociali e li disgrega, provocando parcellizzazione dei compiti, frammentazione del tessuto connettivo tra i membri del gruppo, allontanamento dell’uomo dal suo prodotto nel lavoro, e a lungo andare un preoccupante logoramento psicologico individuale; tutti fenomeni questi che rappresentano oggi le maggiori preoccupazioni di tutte indistintamente le scienze sociali.

Le nuove forme sociali senza gerarchia che nascono oggi nel mondo del web possono rappresentare una straordinaria occasione per immaginare nuovi tipi di relazione che sfuggano all’impasse tra staticità/cambiamento da una parte e tra uguaglianza/differenza dall’altra. Paradossalmente, è qui che l’hyper old viene in soccorso dell’hyper new, perché molte delle soluzioni e delle pratiche sociali sperimentate, ad esempio, nel corso dei secoli da gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori possono rappresentare oggi straordinari esempi creativi per nuovi modelli di leadership, di presa di decisione, di condivisione nelle nuove comunità on line e nelle nuove “leaderless organization”.

Ancora, uno dei principali fondamenti della coesione sociale interna di un gruppo è individuata da Levi Strauss nella forza cogente e nella capacità di senso del mito. Il pensiero mitico è sempre stato utilizzato nelle società primitive per ordinare e dare senso al mondo, creando delle connessioni tra natura a cultura non attraverso concetti, come fa il pensiero scientifico, ma tra immagini del mondo sensibile: cielo e terra, luce e oscurità, uomo e donna, crudo e cotto, diventano così universi di senso attraverso una logica codificata delle qualità sensibili. Il senso del mito non si esaurisce dunque al suo interno, ma appare in tutta la sua forza attraverso la concatenazione, e diventa evidente solo quando i miti sono posti in rapporto uno all’altro.

La nostra società contemporanea non ha più miti. L’ipotesi, suggestiva e soprattutto quanto mai attuale, di Levi Strauss è che la storia abbia in qualche modo colmato nelle nostre società lo spazio del mito, diventando una rappresentazione suggestiva del nostro passato attraverso una rielaborazione della memoria storica che utilizza la stessa chiave del pensiero mitico. La storia quindi, così come è utilizzata nella società contemporanea, non esprime tanto verità oggettive quanto pregiudizi e aspirazioni, e non si dà per questo un’interpretazione assoluta del passato storico ma diverse interpretazioni relative che supportano diverse mitologie.

Relatività della scienza e della storia dunque, che potrebbero tornare nel futuro a incontrare il pensiero mitico dopo averne per secoli negato la validità. In fondo, l’odierna celebrazione dello storytelling, delle biografie, delle diverse forme di revival, sono testimonianze del ritorno a un pensiero mitico ritenuto capace di attribuire un senso a un futuro possibile.

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950 grammi di potere

950 grammi di potere, un concentrato di rabbia distillato in capsule di piombo, un simbolo dell’Ordine e della Verità. Lo abbiamo visto tutti e ci siamo schierati con i buoni, oppure con i cattivi. Ci siamo schierati senza potere o voler capire, affrettandoci a parlare di ritorno degli anni ’70. Ma oggi molto è cambiato.

Il post precedente ha avuto molti riscontri. Qualcuno ha lasciato commenti, altri mi hanno scritto personalmente. Altri hanno telefonato. E poi, a poche ore di distanza, i fatti di Roma.

In un bellissimo saggio sulla fotografia dal titolo “Camera chiara” Roland Barthes parla del punctum. Un fotografo dovrebbe chiedersi qual è il dettaglio che attira l’attenzione dell’osservatore, l’elemento perturbante, qualcosa che rivela una verità da interpretare.

Ormai sono molti giorni che questa foto è stata pubblicata, ma non posso fare a meno di continuare a guardare quel punto: la mano con la pistola. E’ il centro di un vortice di corpi, urla, sudore, rabbia, dolore, paura. Davanti al grembo del poliziotto, l’arma è un oggetto sacro, generatore nella sua immobilità di un gorgo di pulsioni bestiali. Il suo titolare la trattiene, come un sacerdote, come un martire.

Ma cos’è la pistola? Un potere violentissimo e distruttivo che l’istituzione conserva nel suo grembo, come gli dei conservavano il fuoco prima di Prometeo. Un simbolo da contendere ad un potere che nega e che si intende violare, umiliare e offendere. Un diritto di affermare il proprio esistere, attraverso la possibilità di negare l’altro.

Quell’arma è la nostra arma. La possibilità di uscire dai propri schemi mentali, dalle proprie abitudini, dalle proprie idee rifugio. L’arma è un feto abnorme partorito dalle violente contraddizioni del nostro tempo. Ad attenderla non c’è il sorriso rassicurante della levatrice, ma il caos primigenio ed indifferenziato. Attraversare il caos, come i maestri ci hanno insegnato, rende possibile il cambiamento. Nella prospettiva di un Natale di quiete, quest’anno sotto la neve del Presepe, si risvegliano gli istinti di lotta.

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