Competere è bello


Il mio intervento sul tema della Social Enterprise (o enterprise 2.0) presso la corporate university di un cliente,  mi ha consentito di portare avanti alcune riflessioni che voglio condividere.

Vengo teorizzando nell’ultimo periodo nei blog in cui scrivo, in particolare qui e qui, la rilevanza del codice dei fratelli nella costruzione delle nuove culture P2P. Devo alla lezione di Giancarlo Trentini e di Massimo Bellotto, l’adozione dei codici affettivi di Fornari come chiave di lettura simbolica attorno alla quale si sviluppano le culture organizzative.  L’adozione di modelli up down, che fanno riferimento a capi che gestiscono collaboratori adottando la cultura del comando e controllo, implicitamente è inscritta in un paradigma che legge la realtà attraverso relazioni verticali. Relazioni analoghe a quelle che si vivono nel contesto famigliare in cui come figli ci relazioniamo a nostro padre (che ci chiede performance e rispetto delle regole) oppure a nostra madre (che ci cura e ci dona affetto senza condizioni).

Insomma è come se avessimo costruito sistemi organizzativi in cui il primato spetta a questi codici affettivi ed in cui l’altro codice affettivo, quello dei fratelli ha un ruolo inesistente (nelle burocrazie) oppure minore (nelle aziende tecnocratico manageriali).

La tesi che sostengo è che la rivoluzione P2P apre uno scenario in cui il codice dei fratelli acquisisce un rilevo equivalente a quello paterno e materno.

Lo studio del codice dei fratelli rivela che esso si articola in due dimensioni: una distruttiva ed una costruttiva. E’ evidente che tra fratelli vi sono sentimenti di gelosia e di invidia generati dalla competizione per ottenere l’amore dei genitori. Ho due figlie piccole e per me è assolutamente evidente. La più grande manifesta a tratti sentimenti di profonda insofferenza verso la sorellina, specie nei momenti in cui io e mia moglie ci prendiamo cura della piccola.

L’osservazione di mia figlia mi mostra anche la componente generatrice della fratria. I fratelli sono complici e sodali, imparano a divertirsi insieme se l’età rende possibile fare gli stessi giochi. Questo aspetto è molto interessante. Mi considero un formatore soprattutto, ed è molto interessante vedere nelle aule come non appena si propone un gioco le persone si attivano e “competono”. Lasciandosi andare emergono spesso, anzi sempre i meccanismi competitivi a somma zero, caratterizzati da carico (adrenalina da competizione) e scarico energetico (euforia per la vittoria, oppure depressione per la sconfitta) così come Reich ce li ha insegnati. Sistematicamente arriva il “bravo formatore” che dà una tirata d’orecchie agli allievi e li riporta al dovere di un approccio più razionale e consapevole della teoria e dell’approccio di turno. Gli oltre 200 dilemmi del prigioniero che ho condotto (in almeno 10 varianti) e l’osservazione che nel 95% dei casi prevalgono le dinamiche competitive mi induce a pensare che dietro debba esserci un motivo profondo. So anche che da qualche parte ci sono studi che dimostrano che la cooperazione è la dimensione “naturale” dell’uomo, ma per il momento non voglio considerarli. Lavoro su questa ipotesi e sostengo che la competizione (tra fratelli) è fonte di energia psichica. La competizione tra fratelli sviluppa energia psichica e quindi “tira fuori dal nido”. Il superamento del caldo abbraccio della famiglia è possibile perché la fratria costringe a superare i propri limiti e a crescere. Allora è evidente che la fratria è una fonte di apprendimento. In questa learning era, in cui lo sviluppo è possibile solo se si generano positive spirali di sviluppo della conoscenza e dell’innovazione acquisisce peso il codice dei fratelli.

Dunque nell’età della globalizzazione si generano le condizioni per l’affermazione del codice affettivo in cui l’apprendimento, la collaborazione, l’iniziativa dal basso sono maggiormente valorizzati.

Concludo con la meravigliosa immagine proposta da una partecipante nel finale del corso. Facendo un’analogia con le bellissime sculture di Modigliani esposte al Mart e che abbiamo visto mercoledì 23 marzo, la signora ci ha detto: la leadership del futuro è femmina. Da un lato rotonda ed accogliente (e orientata alla forma pura NdA), dall’altro ruvida, tagliata con percorsi netti, non finita.

Un’intuizione felice che disegna un itinerario per capire come cambia la leadership nei nuovi scenari. Ne riparleremo prossimamente.

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  1. #1 di dario forti il aprile 17, 2011 - 4:34 PM

    E’ forse la prima volta che intervengo e, non sapendo come si fa a lanciare una discussione, mi collego al post di Paolo.
    L’altra sera ho visto Habemus papam, l’ultimo film di Nanni Moretti. A parte altre possibili letture, su cui tornerò, volevo segnalare alcuni risvolti interessanti per il tema del blog:
    – il fallimento della leadership professionale dello psicoanalista (Moretti);
    – l’autoterapia (leaderless theraphy?) che il paziente-papa (Piccoli) riesce a esercitare su se stesso;
    – l’implacabile sentenza finale sulla caduta della leadership (il primo e ultimo discorso dal balcone che il papa riesce a tenere) e sul bisogno suo (di tutti?) di followership.

    • #2 di fabiobrunazzi il aprile 17, 2011 - 6:10 PM

      Grazie Dario, ci dai un ottimo spunto di discussione sulla crescente difficoltà di essere una guida oggi, o più propriamente sul mutamento delle forme di leadership.
      Il bisogno di followership rimane costante ma forse si sta diluendo la reale capacità da parte di figure istituzionali di fornire senso.
      E’ interessante interrogarsi su alcuni punti:
      – le reazioni e le strategie dei followers di fronte alla perdita di guide
      – Lo smarrimento delle guide e la difficoltà di esercitare leadership attraverso l’identità, ovvero la transitorietà e temporaneità dei fenomeni di leadership (il carisma così come illustrato da Natili&Pasini qualcosa ci dice su questo punto)

    • #3 di bruttini il aprile 17, 2011 - 7:25 PM

      Sono d’accordo con Fabio. I modelli che stiamo cercando di riconoscere in questo blog indicano che la leadership può veramente essere circolante come abbiamo appreso studiando e frequentando i t group. In un recente team bulding, un capo debole nella conduzione ha consenito al suo gruppo l’emergere di quelle competenze che hanno reso la perfomance del gruppo straordinaria. Non è un caso che quel capo sia eccellente piuttosto, nella cura, nel contenimento, nel presidio dei valori. E non un caso che sia una donna.

  2. #4 di Marco il Maggio 29, 2011 - 10:50 PM

    Mi piace molto questo post perchè finalmente qualcuno vuole muovere un po’ le acque sul tema della decentralizzazione delle organizzazioni basate sul principio della Leaderless. Ho una piccola azienda di 50 persone e ogni giorno (senza esserci) cerco di creare situazioni di decentralizzazione e possibilità. Mi sta venendo un dubbio: come si fa con coloro che vogliono con la V maiuscola, essere condotti?

  3. #5 di Paolo Bruttini il giugno 1, 2011 - 11:04 am

    Poni un punto interessante Marco. La scuola psicosocioanalitica classica sostiene che quando i meccanismi gerarchici si allentano, le persone sono meno difese ed aumentano le ansie. In altre parole cresce il disagio perchè viene frustrato il bisogno delle persone di dipendere. Nelle aziende 2.0 che ho visitato le ansie vengono contenute in due modi 1) la sviluppo di un “campo sociale” molto più forte. Infatti si generano le dinamiche tipiche di comunità, che favoriscono un riconoscimento affettivo più ancora che istituzionale 2) l’esercizio di leadership connettiva o integrativa. Attento non solo management, ma leadership. Tale leadership deve essere catalizzatrice. In alcuni rari (e fortunati) casi tale azione è favorita dal carisma. Ma non è strettamente necessario. Anche una leadership “debole” va bene.
    Quindi se fossi in te moltiplicherei gli sforzi per favorire dinamiche connettive nel tuo sistema.

  4. #6 di Cecilia il luglio 20, 2011 - 10:26 PM

    Mi piacerebbe riuscire a contestualizzare questi concetti in ambito cooperativo ma non ne ho le competenze! Mi aiutate?

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