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Occupy Sandy: il riciclo al tempo dei network

Ho soppesato per un secondo la parola “riciclo” prima di utilizzarla nel titolo. Devo confessare che anche se mi considero piuttosto ecologista la mia mente continua a portarsi dietro un’associazione negativa della parola “riciclare”. Riciclato è qualcosa di non originale, non innovativo, non nuovo. Ma così com’è arrivata, l’associazione negativa è stata subito ricacciata indietro. Riciclare è etico, bello e funziona. E si può fare anche con i network.

Vi ricorderete senz’altro dell’esperienza Occupy Wall Street, “We are the 99%”. Ne avevo scritto su questo blog circa un anno fa e la vicenda ha avuto ampio spazio nell’opinione pubblica mondiale, come esempio di un’efficace e ampia forma di mobilitazione sociale e politica. L’entusiasmo e la resistenza al rigido inverno newyorkchese sono scemati tra gli occupanti dello Zuccotti Park (e del resto degli Stati Uniti) che avevano dato vita a questa prima spettacolare protesta, ma l’esperienza è stata capitalizzata con la creazione di un network permanente, interoccupy.net .

Il network cerca di favorire la comunicazione tra individui, gruppi di lavoro e le Assemblee Generali locali, che sono la spina dorsale del movimento. Le Assemblee Generali dichiarano di “utilizzare la democrazia diretta e i processi decisionali di tipo orizzontale al servizio degli interessi del 99%”. Quello che si è spontaneamente creato e sviluppato a partire dai giorni della protesta ha preso la forma stabile di un network di gruppi di lavoro impegnati su diversi fronti. Esiste un network, ora usiamolo! Il Coordinamento è stato il bisogno intorno a cui è nato IO:

InterOccupy (IO) is an interactive space for activists looking to organize for global and local social change. By October 2011, the Occupy Movement in the US was in full swing with hundreds of encampments spread across vast distances. The need for a robust communication network became apparent when camps had trouble contacting one another in order to share important information about the suppression of the movement.

L’utilità della tesorizzazione di un’esperienza di network orizzontale si vede nelle azioni di aiuto e volontariato nelle zone martoriate dall’uragano Sandy: intere porzioni di città ancora senza elettricità, attività commerciali annientate dall’ingenza dei danni, mancanza di generi di prima necessità. In questo scenario la risposta delle autorità è presente, ma come spesso succede è lenta e inefficace a coprire interamente i bisogni di una comunità in seria difficoltà. Occupy Sandy è una delle entità coinvolte nel sostegno alle comunità colpite dal dramma dell’uragano, e a quanto pare ci riesce molto bene grazie all’efficacia del coordinamento orizzontale sviluppato nei mesi della protesta.

La scorsa domenica ho partecipato con la mia ragazza ad un’azione di volontariato per Occupy Sandy. Avere un’auto con carburante in questi giorni a New York City è da considerarsi un privilegio e Kate ha pensato che potesse essere di grande utilità. Il centro di Occupy Sandy a cui ci siamo rivolti per offrire questo prezioso aiuto è situato in una chiesa in Brooklyn. L’edificio ospita un centro di raccolta e coordinamento degli aiuti che vengono poi smistati nelle aree disastrate. Questi centri sono situati in differenti zone della città per una maggiore capacità di raccolta delle donazioni. Nel modello dei network orizzontali non esiste un Centro sovraordinato, ma tanti nodi che svolgono una funzione territoriale indipendente ma coordinata e che permettono di organizzare i diversi aiuti individuali. C’è chi dona del cibo e beni di prima necessità, chi tempo e forza lavoro, chi vuole cucinare, chi ha un’automobile, e così via.

Il centro di raccolta aiuti brulicava di gente riunitasi con le più svariate qualifiche e disponibilità, una catena umana andava dal marciapiede fino all’interno della chiesa passandosi le provviste, persone andavano e venivano dalla cucina o dai banchi di distribuzione, ragazzini entusiasti cercavano di rendersi utili. Appena scoperto che avevamo un’auto e desideravamo condividerla siamo stati registrati attraverso i computer e ci è stata affidata la missione di consegnare due assistenti sociali e una serie specifica di provviste per una zona di Brooklyn chiamata Red Hook. I coordinatori degli aiuti sembravano avere una chiara idee di cosa servisse e dove, in modo da canalizzare e distribuire efficacemente le risorse e le provviste. Insieme ai due assistenti sociali abbiamo consegnato candele, torce elettriche, medicine, dentrifrici e spazzolini, pannolini e prodotti per l’igiene infantile. A missione compiuta abbiamo riportato telefonicamente al centro di coordinamento l’avvenuta consegna.

Il modello e le relazioni createsi nell’esperienza di Occupy Wall Street sembrano aver portato ad un network coordinato in grado di rispondere a diversi scopi ed esigenze. Esiste senz’altro una vision di fondo, legata a quanto sperimentato nel corso della mobilitazione politica dell’autunno scorso, ma il modello di processo decisionale orizzontale e la democrazia diretta sembrano oggi rispondere a diverse esigenze che gli attivisti di volta in volta mettono in campo. La Rete e i siti web servono come centro di coordinamento e informazione ma sono poi le persone reali che spendono tempo e energie per portare a termine le differenti missioni. Gli aiuti alle popolazioni colpite da Sandy offrono un’arena di confronto tra modelli gerarchici e modelli orizzontali. Questi ultimi si stanno dimostrando efficaci nella risposta ad una situazione di crisi grazie alla rapidità delle azioni e alla flessibilità organizzativa garantite da una collaudata funzione di coordinamento. Un modello da imitare e “riciclare”.

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PARTE TUTTO DAI CITOFONI

L’altra sera camminavo per Milano immerso nel mio buon umore: non avevo nulla da fare e la mia allegria mi chiese di schiacciare a due mani il “quadro” di un citofono condominiale. Con mia sorpresa il citofono in questione era a codice numerico (un codice per ciascun appartamento), il che impedì il mio esercizio, facendo volgere la mia allegria in altre direzioni.

Questo avvenimento mi ha dato da pensare: il fatto che numerosi individui (io in primis) ha continuato a schiacciare i citofoni altrui per anni, senza alcun motivi e col solo scopo di divertirsi (in maniera irrazionale) a spese altrui, ha fatto sì che i citofoni siano stati modificati per evitare tale fenomeno. Un comportamento insensato, prolungato nel tempo ha causato una modifica che sarebbe stata, in assenza del comportamento, inutile.

Adesso non so e non mi interessa se i citofoni siano cambiati per questo motivo, il discorso è un altro: si riesce ad ottenere una “collaborazione” duratura e diffusa più facilmente se questa consiste nello schiacciare citofoni a sconosciuti, confronto alla diffusione reciproca di informazioni sul sistema di riciclaggio dell’immondizia, piuttosto che sullo spreco dell’acqua. Sembra che sia più facile impegnarsi a perpetuare un comportamento insensato tanto da ottenere modifiche tecniche (piuttosto che fisiche, culturali o ambientali), che prendersi l’onere di modificare la polis nei sui aspetti che creano danno al singolo nel suo quotidiano.

Viene più facile tramandare un comportamento, diffonderlo all’interno della propria rete sociale, se questo ha scopi bassi o non ne ha proprio, piuttosto che unire le forze per un gestaltico bene comunitario: se non vi è un’esigenza impellente di cambiamento, se la realtà in cui si è immersi è nociva ma non mortale, si continua a vivere senza porsi domande, senza seguire la via illuminata dai pochi innovatori che cercano di modificare uno stato delle cose che si sta dirigendo verso lo sfacelo.

Non ho mai capito come mai la proposta di un’idea innovativa, futuristica che ha come obiettivo la modificazione di aspetti negativi, dannosi, nocivi o inquinanti, ha come risposta la sua contestazione: proporre speranze fa più paura che tenersi il problema. Si riesce a essere collaborativi solo se la collaborazione in questione riguarda qualcosa che non intacca la nostra realtà, le nostre certezze (anche se queste non ci creano alcun guadagno); si riesce a mettere più facilmente il nostro impegno, i nostri sforzi, le nostre capacità se queste sono al servizio di qualcosa che non sconvolga il nostro mondo, e, cosa ancor più disgustosa, si è molto più propensi a contestare colui che propone un cambiamento confronto a collaborare con lui.

E’ meglio farsi guidare da un singolo allo sbando piuttosto che proporsi in prima persona come guida; il rimanere “invisibili”, nella massa, il “non dare nell’occhio”, sono diventati di questi tempi dei valori. Proporre nuove idee, leggere libri scritti da voci “fuori dal coro” (o anche solo leggere), informarsi per proprio conto, sono comportamenti sovversivi, è andare “contro corrente”, è volersi “mettere nei guai”. Ma forse impegnarsi per uno scopo comune è una prospettiva migliore che omologarsi per evitare di chiedere, per evitare di sapere. Forse andare contro corrente è la via di salvezza se la corrente porta alle rocce. Forse i guai li viviamo ogni giorno sulla nostra pelle, e li abbiamo vissuti per anni, e li vivremo se non creiamo alternative. Forse si è capaci di ottenere un cambiamento socialmente molto più rilevante confronto ad un citofono se uniamo i nostri sforzi assieme e perpetuiamo attività per il bene della comunità, forse il nostro futuro può essere deciso da noi se solo riuscissimo a non essere tanto spaventati da questo.

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Ribellioni digitali: quando toccherà all’Italia?

C’è un pensiero che sento muoversi in giro, si è insinuato nei discorsi della gente comune qui in Italia. E’ un discorso che fa rabbrividire. Si chiama lotta armata. Certo non lo si sente in ogni situazione, però basta superare la barriera della confidenza e ci si stupisce nell’ascoltarlo uscire dalla bocca di padri di famiglia, studenti universitari, disoccupati e lavoratori. Gente che paga le tasse, che ha progetti per il futuro, ma soprattutto non ideologizzata.

<<Non c’è più niente da fare, l’unica soluzione ormai è la lotta armata.>> Ho sentito parlare di lotta armata da elettori di destra e di sinistra insieme, se ancora oggi questa distinzione vale più di un fatto di costume, ma è un pensiero sentito anche da gente marcatamente apolitica. Se nulla sembra potere la democrazia, se nemmeno la legge sembra in grado di far funzionare le cose, allora quale soluzione?

Dalla Tunisia all’Egitto, le esplosioni di violenza, gli scontri in piazza sembrano moltiplicarsi come focolai, tanto che a Davos questo fenomeno è stato inserito nella lista degli scenari futuri catastrofici. Per questo la comunità dei Potenti di Davos ha stilato la lista dei Black swans (i cigni neri ovvero eventi ad alto impatto, bassa probabilità, bassissima prevedibilità).

Entreremo a far parte di uno dei 5 cigni neri previsti a Davos come scenari futuri? La disoccupazione più internet permette il convogliamento e lo sfogo di risentimento con modalità leaderless. Lo stiamo vedendo accadere in stati non-democratici, in caso di mancanza di cibo o di prezzi fuori controllo. Per quanto tempo l’Italia sarà al sicuro da rischi di ribellioni violente?

Le Flash mob di oggi, da Genova a Torino Porta Nuova sono ancora un indizio positivo di libertà di espressione e di azione. Ma che tipo di flash mob potremo immaginare di fronte a uno scenario ben più drammatico dove la disoccupazione è in continua crescita e le risposte dei governi tardano a fornire soluzioni?

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DI QUANTO REALE ABBIAMO BISOGNO?


Se e quanto è sbagliato usufruire delle piattaforma del world wide web per creare piccole realtà artificiali controllabili per evitare di confrontarsi con il reale? Quanto c’è di patologico nell’usare l’etere come forma difensiva contro le minacce quotidiane che la società propina? Ha una accezzione negativa il fatto di usufruire di internet per realizzare l’ altrimenti irrealizzabile?

Venerdì ho avuto un breve ma rilevante confronto con Stefano Del Bene (new entry del nostro blog), a proposito del fatto che sia o meno positivo (eticamente e razionalmente parlando) creare una “realtà artificiale”, un “ecosistema protetto”, una nicchia, sfruttando la tecnologia a rete (nel caso specifico il blog) per evitare di affrontare alcune nostre ansie. Stefano mi faceva notare come un comportamento del genere fosse criticabile in quanto chiuderebbe le porte sia ad un pubblico maggiore (cioè tutti quelli che vivono e pensano nel ” mondo reale”), e che quindi verrebbe a creare una limitazione, sia perché sarebbe in un certo qual modo un po’ vigliacco in quanto ci si crea questo ambiente “meno pericoloso”, più “controllabile”, per evitare di cadere nei tranelli che la realtà quotidiana ci propone continuamente.

Ripensandoci Stefano ha perfettamente ragione.

Settimana scorsa sono andato a far incorniciare una stampa di Tamara De Lempicka. Il negozio di cornici lo conosco bene, è vicino al negozio in cui mia madre ha lavorato per dieci anni: lo guardavo sempre sulla strada per andare da mia madre e pensavo fosse un negozio di boomerang; confondevo infatti gli angoli delle cornici appese ala parete in esposizione con dei boomerang. Per anni nella mia testa, nella mia realtà, quello era il negozio più bello del mondo (il mio mondo), pensavo che ci lavorava era la persona più fortunata che potesse esistere. Entro: emozionato di incontrare il mio idolo giovanile mi sono avvicinato con la mia stampa alla proprietaria, ho chiesto e scelto una cornice, e ho poi esposto alla signora il fraintendimento che per anni ha alimentato le mie fantasie.

La stronza non ha neanche sorriso, mi ha consegnato il biglietto con l’appuntamento per ritirare il mio quadro e mi ha accompagnato alla porta.

Ora quel negozio mi da sui nervi ogni volta che ci passo.

Non c’è alcun dubbio che fraintendere degli angoli di cornici per dei boomerang sia sbagliato, ma farlo mi faceva stare bene, mi faceva sognare. E’ altrettanto vero che sperare in una forma organizzativa democratica sia utopico ma mi fa stare bene. Vivere in un mondo artificiale è sbagliato, patologico, ma stare troppo tempo nel reale, se il reale è per certi versi lo schifo che leggo e vedo ogni giorno, può essere un utile scappatoia. Non credo che continuare a sperare di diffondere una cultura delle organizzazioni senza gerarchie pre imposte porterà un giorno alla realizzazione di tale teoria, ma l’idea che succeda e il tentativo che si realizzi mi fa stare meglio. Scappare in una realtà fittizia per evitare di confrontarsi con quella vera è una forma difensiva certamente patologica; ma se questa fosse solamente una parte del nostro quotidiano sarebbe ancora così sbagliato? Credere di poter realizzare sogni razionalmente irrealizzabile è così del tutto utopico? Creare ambienti in cui l’immondizia che infesta ogni giorno la nostra polis non può entrare è veramente negativo?

Domani spaccherò la vetrina del negozio di cornici col mio nuovo boomerang.

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950 grammi di potere

950 grammi di potere, un concentrato di rabbia distillato in capsule di piombo, un simbolo dell’Ordine e della Verità. Lo abbiamo visto tutti e ci siamo schierati con i buoni, oppure con i cattivi. Ci siamo schierati senza potere o voler capire, affrettandoci a parlare di ritorno degli anni ’70. Ma oggi molto è cambiato.

Il post precedente ha avuto molti riscontri. Qualcuno ha lasciato commenti, altri mi hanno scritto personalmente. Altri hanno telefonato. E poi, a poche ore di distanza, i fatti di Roma.

In un bellissimo saggio sulla fotografia dal titolo “Camera chiara” Roland Barthes parla del punctum. Un fotografo dovrebbe chiedersi qual è il dettaglio che attira l’attenzione dell’osservatore, l’elemento perturbante, qualcosa che rivela una verità da interpretare.

Ormai sono molti giorni che questa foto è stata pubblicata, ma non posso fare a meno di continuare a guardare quel punto: la mano con la pistola. E’ il centro di un vortice di corpi, urla, sudore, rabbia, dolore, paura. Davanti al grembo del poliziotto, l’arma è un oggetto sacro, generatore nella sua immobilità di un gorgo di pulsioni bestiali. Il suo titolare la trattiene, come un sacerdote, come un martire.

Ma cos’è la pistola? Un potere violentissimo e distruttivo che l’istituzione conserva nel suo grembo, come gli dei conservavano il fuoco prima di Prometeo. Un simbolo da contendere ad un potere che nega e che si intende violare, umiliare e offendere. Un diritto di affermare il proprio esistere, attraverso la possibilità di negare l’altro.

Quell’arma è la nostra arma. La possibilità di uscire dai propri schemi mentali, dalle proprie abitudini, dalle proprie idee rifugio. L’arma è un feto abnorme partorito dalle violente contraddizioni del nostro tempo. Ad attenderla non c’è il sorriso rassicurante della levatrice, ma il caos primigenio ed indifferenziato. Attraversare il caos, come i maestri ci hanno insegnato, rende possibile il cambiamento. Nella prospettiva di un Natale di quiete, quest’anno sotto la neve del Presepe, si risvegliano gli istinti di lotta.

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