Archivio per la categoria Mente 2.0

Così vicino, così lontano

Che fine hanno fatto le distanze? Si sono diluite con la tecnologia e la tecnica, stinte nell’immediatezza . Oggi la lontananza non è più lontana. Non ci sono più luoghi o persone troppo lontane tutto oggi è immediato, a portata di click . Tutto ciò che un tempo era remoto ed esotico viene verso di noi, possiamo gustarlo, afferrarlo e sperimentarlo.

Distanza in tempo reale

La distanza tra fatti, esperienza, luoghi e la narrazione degli stessi sta tendenzialmente diminuendo. Oggi moltissime persone si fanno reporter di sè stessi e delle loro vite, parlano in prima persona nei social media, nei blog, attraverso contenuti multimediali. L’uso di una terza persona, di un alter ego, di un’identitità fittizia è nettamente meno diffusa di quanto paventato dagli studiosi dei nuovi media, psicologi in primis, che sin dall’emergere di questi nuovi strumenti di interazione sociale ci hanno sempre parlato di quanto siano rischiosi per i rapporti sociali e per l’identità individuale.

Ho passato gli ultimi tre anni vivendo in arcipelaghi remoti. In queste isole lontane dalla civiltà ho sperimentato stili di vita senz’altro differenti ma anche il vantaggio dell’essere quanto più autosufficienti possibile. Ma non ho certo vissuto nell’isolamento più totale, ho continuato a parlare con la mia famiglia settimanalmente, ho fatto acquisti online, visto film appena usciti nelle sale cinematografiche, ho studiato e collaborato con alcuni gruppi di ricerca e seguito i fatti di cronaca che più mi interessavano, senza esserne sommerso involontariamente. Questo non sarebbe stato possibile 10 anni fa. Le distanze di oggi non sono quelle di ieri ma sono pur sempre distanze, che mi hanno costretto ad uno sforzo maggiore nel narrarmi, per mantenere una connessione con gli altri. Quanto più l’esperienza e l’ambiente cambiavano tanto più trovavo necessario creare ponti tra prima e dopo, lontano e vicino, qui e là.

Non credo ci sia bisogno di attraversare oceani per sentire questa esigenza. Gli ambienti metropolitani, gli stessi luoghi di lavoro si stanno frammentando a tal punto che l’esigenza narrativa è una costante ben nota e studiata in differenti discipline, ma è soprattutto una pratica quotidiana. Le conoscenze e le informazioni di cui abbiamo bisogno possono non trovarsi nell’universo relazionale a noi più prossimo, bisogna andarle a cercare al di là, lontano ma vicino. Gli autori in questo blog narrano di alcuni mutamenti particolarmente interessanti, e lo fanno dal loro singolo punto di vista e a partire dalle esperienze quotidiane. Eppure spesso prendono spunti ed esempi da realtà distanti nello spazio i cui contenuti sono però a portata di mano e usufruibili. Anche qui su Leaderlessorg si creano ponti attraverso le narrazioni.

L’apertura alle narrazioni decentralizzate sta permettendo a molti di incontrare esperienze simili o antitetiche alla propria, un vero e proprio patrimonio di storie, un racconto delle vicissitudini di un collettivo sociale che cerca di ricostruire quelle radici comuni messe in crisi dall’abbattimento delle distanze

Un caso interessante

Qualche tempo fa Elisabetta Pasini ci ha consigliato di andare vedere un sito internet molto particolare. Si tratta di cowbird.com/ un contenitore di storytellers che qui trovano una piattaforma comune per creare e condividere le loro narrazioni. Secondo i creatori gli usi di cowbird possono essere molteplici anche se il più comune sembra essere: “Cowbird allows you to keep a audio-visual diary of your life, and to collaborate with others in documenting the overarching “sagas” that shape our world today.” I differenti utenti che scrivono in cowbird hanno la possibilità di entrare in un grande database di storie dove creare catene e contribuire a riscivere dal basso  una cultura esperienziale collettiva. la catalogazione delle storie avviene attraverso Tags, data e luogo per rendere possibili la ricerca e il recupero da parte degli utenti o dei lettori contribuendo alla formazione ancora una volta di una libreria di sapere ed esperienza condivisa, una folksonomia di storie. La differenza con altri social network ben più popolari è descritta al suo autore Johnathan Harris, con queste parole:

‘Cowbird rappresenta l’antitesi di Twitter e di Facebook. Ci sono i fast-food e ci sono i ristoranti slow-food. Gli hamburger e le patatine fritte piacciono a tutti. Ma alla lunga ci rendono obesi. Provocano il diabete. Ci fanno ammalare. Sono convinto che certi siti di social network producano danni simili al nostro cervello. Dobbiamo imparare a mangiare meglio. Fuori di metafora … dobbiamo ricominciare a pensare.”

Condivisibile o meno, Harris non ha fatto altro che racchiudere in un contenitore un fenomeno che già aveva cominciato a prendere forma attraverso la pubblicazione di blogs e pagine personali e dalla necessità sempre più impellente di narrare le proprie esperienze. Quella necessità, vecchia quanto l’umanità stessa, di creare ponti per superare le distanze.

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SCASSATUTTO

Da bambina, insieme a mio fratello e a due vicini di casa, avevamo fondato una società segreta che si chiamava Scassatutto. Il nostro simbolo era una ruota di carro trovata nell’immondizia, che facevamo rotolare nella strada dietro casa, allora senza macchine. Il nostro target preferito erano i bidoni della spazzatura perché si rovesciavano in modo abbastanza spettacolare. Avevamo anche un piccolo tesoro costituito da fionde, biglie, oggetti raccattati in giro e qualche soldo, che seppellivamo in giardino in posti sempre diversi. Come tutte le cose segrete, in poco tempo la popolarità della Scassatutto si era diffusa tra gli altri bambini del quartiere e molti chiedevano di entrare a farne parte; ma noi, che ci consideravamo speciali, non volevamo altri membri nel gruppo, e quindi dedicavamo buona parte del nostro tempo a inventare “prove iniziatiche” di ammissione praticamente insuperabili, come percorsi notturni in cantina o nel giardino della camera mortuaria, che disseminavamo di trappole. I malcapitati che volevano entrare a far parte della Scassatutto dovevano cimentarsi da soli nell’impresa, e siccome la riuscita della prova era a nostro insindacabile giudizio, alla fine nessuno veniva mai ammesso. Questo creava, misteriosamente, un grande aumento della domanda, e faceva crescere la nostra fama nel quartiere. Alla fine la società si è sciolta, per una congiura ordita dal portinaio del nostro palazzo insieme al guardiano della vicina camera mortuaria che avevano scoperto il buco nella rete del giardino del cimitero che avevamo fatto per entrare di nascosto, e la storia si è conclusa lì.

Quest’anno ho passato buona parte della vacanze di Natale leggendo la bella biografia di Steve Jobs di Walter Isaacson, uno dei libri più interessanti del 2011; e, per qualche motivo, la storia della Apple mi ha riportato alla mente la storia della Scassatutto.

Che cosa hanno in comune la vita di uno dei personaggi più rappresentativi degli ultimi 50 anni e un gioco di ragazzini? Certamente non molto, e comunque poco più di un’impressione; però, man mano che andavo avanti nella lettura, mi sembrava che Steve Jobs applicasse nella scelta e nella conduzione delle persone in Apple un sistema di management – se mai si può definirlo tale – abbastanza simile al nostro, e comunque esattamente all’opposto di quel che si può leggere in qualsiasi manuale di leadership.

Per semplicità lo riassumerei in tre assiomi: decidere di cambiare il mondo, formare una squadra di “A level people”, e dar loro obiettivi impossibili.

La sua ricerca ossessiva di un’idea precisa di eccellenza, che ha molto a che fare con quanto Andrea Branzi ha definito la “strategia del rabbino” – dipanare lungo tutto l’arco della propria vita tutte le possibili e molteplici espressioni di un unico principio generativo, in Carisma: il segreto del leader, Pasini-Natili, Garzanti, 2009 – non prevedeva necessariamente partecipazione, negoziazione degli obiettivi, motivazione, e nemmeno coinvolgimento; puntava ad avere invece una squadra composta dai migliori in assoluto nel loro campo, che Jobs riusciva intuitivamente a individuare, uniti dal desiderio di realizzare uno stesso sogno, che Jobs riusciva a immaginare. Tra i tanti talenti di Steve Jobs, il più importante era certamente la sua capacità di scegliere le persone giuste con cui fare le cose (Steve Wozniak ai tempi del college, Jon Ive per il design Apple, John  Lasseter per l’animazione in Pixar, per limitarsi solo ad alcuni celebri esempi), senza farsi condizionare da limiti esterni di nessun tipo.

Steve Jobs non aveva di certo un carattere facile: personalità forte con una chiara tendenza a essere dispotico e umorale, non faceva nulla per mitigare le asperità del suo carattere, anzi spesso a esse indulgeva pensando, come racconta nell’ultimo capitolo della biografia, che la capacità di “tenuta” rispetto a un ideale operi una specie di selezione naturale, e che la principale responsabilità di un capo stia nell’assumersi l’onere di non accettare mai nulla di meno della perfezione; e per questo è necessario scartare i “bozos”, tutti quelli che non valgono nulla e che proprio per questo sono capaci di affossare qualunque progetto. Niente zone grigie nella sua storia, solo bianco e nero e tinte forti; senza cadere però mai nella trappola che porta facilmente alla rovina le personalità forti, la tentazione di circondarsi di yes man senza personalità che non mettono mai in discussione le scelte del capo.

E se, alla fine, avesse ragione lui? “Sognare il sogno impossibile”, come dice il Don Chisciotte di Cervantes, non è forse possibile solo con una squadra di A-level people per i quali il senso di unicità e di eccellenza diventa la più potente delle motivazioni?

Il paradosso dell’innovazione del mondo digitale si gioca precisamente in questo cortocircuito creativo tra elitismo e cultura di massa.

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Inconscio, telefonini e margherite

Un paio di mesi fa a Brescia in occasione del convegno annuale di Ariele psicoterapia e dedicato alla figura di José Bleger, ho assistito ad una relazione molto interessante. A tenerla è stato il mio amico Paolo Magatti, psicosocioanalista e consulente. Con l’intento di proporre una carrellata in merito all’applicabilità del pensiero di Bleger nel mondo organizzativo contemporaneo, l’Autore in un passaggio centrale ha sostenuto che la “la tecnologia è forse il nuovo luogo in cui depositare le parti psicotiche della personalità”. L’ipotesi è veramente importante ed ardita. Devo dire che non mi sorprende perché ho sostenuto concetti simili in questo ed in altri blog, dunque quello di Magatti è un contributo ad un dibattito aperto. Perciò sviluppo volentieri la discussione, partendo prima dal chiarimento del contesto in cui ci muoviamo.

Nel pensiero di José Bleger, le organizzazioni, le imprese, i ruoli che in esse interpretiamo sono il luogo cui gli individui depositano le proprie ansie psicotiche. Ovvero le dimensioni irrisolte della personalità troverebbero un adeguato “contenimento” nei luoghi di lavoro. Tale funzione di deposito è terapeutica, perché in questo modo le ansie che turbano i nostri fragili equilibri, sono opportunamente confinate e collocate, riducendo in questo modo il loro impatto negativo. Per tale motivo si dice che le imprese hanno una funzione difensiva. Fin qui José Bleger.

Nel contesto attuale noi assistiamo ad un fenomeno del tutto nuovo: le organizzazioni sono sempre più fluide, frantumante, flessibili tanto che questa funzione di deposito è fortemente compromessa. Non è un caso che il disagio dentro e fuori le aziende sia molto aumentato. Si pensino, ad esempio, ai tanti esempi di follia distruttiva nelle famiglie e nella società, di cui ogni sera al telegiornale sentiamo parlare. L’ipotesi che Paolo Magatti ha avanzato è che tale funzione venga oggi svolta dalla tecnologia.

Ho lungamente riflettuto su questo e credo sia vero solo in certe situazioni.

La tecnologia, come sostiene Galimberti, è un mezzo per colmare il gap tra il principio del piacere e quello di realtà. Assolve il ruolo di ridurre lo spazio ed il tempo tra l’insorgere del desiderio e la sua soddisfazione.  In taluni casi la tecnologia si presta ad un godimento dissipativo che ci allontana dagli altri verso posizioni narcistiche ed autistiche.

La tecnologia ha una dimensione generativa solo laddove diventa un mezzo per creare comunità di pari che condividono il medesimo scopo. Io credo piuttosto che siano queste comunità i nuovi luoghi in cui depositare le ansie psicotiche blegeriane. Le comunità trasversali, affettive o di condivisione di conoscenze o di pratiche rappresentano dei contenitori sostanziali che riconoscono i bisogni affettivi, individuali e danno sostegno. Le nuove tecnologie, gli smartphone oppure i software che consentono il social networking (intra aziendale e individuale) consentono e favoriscono l’accesso a questi nuovi luoghi di deposito, dunque facilitano l’attivarsi di questi nuovi meccanismi difensivi.

La novità significativa è che si moltiplicano questi luoghi di deposito, non essendovene più uno solo come l’azienda. La moltiplicazione dei luoghi e la loro instabilità produce indubbiamente degli effetti psichici rilevanti. Tuttavia ciò non è solo negativo. Nel passaggio dal politeismo greco e romano, al monoteismo cristiano si è generata una concezione unificante del reale che si riflette nell’idea moderna di identità. Nell’età liquida attuale è da costruire invece una concezione plurale del sé senza connotati patologici. Una margherita di possibilità per vivere il presente senza colpe.

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Rivoluzione dura

Quando abbiamo cominciato a scrivere questo blog si parlava chiaramente già di P2P. Eravamo convintissimi di quanto sostenesse Bauwens, ovvero che la Peer production non fosse soltanto una tecnica produttiva per lo sviluppo di software e tecnologia quanto invece che ci trovassimo di fronte a un nuovo e rivoluzionario paradigma sociale, a un nuovo modo di produzione. L’Open Source come modello di business allargato potenzialmente a tutti i settori.

Eppure questa convinzione non riusciva per me ancora a trovare un riscontro pratico, in termini di implicazioni nella vita quotidiana, al di là che esistesse un software libero e gratuito pronto a soddisfare le esigenze dell’utenza generica. Non riuscivo nella mia mente e nelle esperienze di tutti i giorni a fare il salto, dal software all’hardware. Cercavo quell’esempio che mi facesse capire come la gente potesse davvero cooperare per la produzione di oggetti fisici (hardware) strumenti che concretamente cambiano la vita quotidiana. Poi ho visto questo video:

E mi è piaciuto. E l’idea piace a molti visto chele fiere del movimento dei Makers si stanno espandendo un pò in tutto il mondo. DIY (Do It Yourself) è uno slogan che ha portato allo sviluppo e alla distribuzione delle stampanti 3D, per creare  qualsiasi oggetto plastico a partire da un disegno grafico. Una piccola azienda grazie a queste nuove macchine sta offrendo la possibilità al cliente (negozi di giocattoli ma anche gente comune) di disegnare e produrre giocattoli a richiesta.

Un’altra rivoluzionario scoperta ha un nome e un padre tutti italiani. Si chiama Arduino. Arduino è una piattaforma open-source per applicazioni elettroniche creata per agevolare il lavoro di artisti, designer, hobbisti, e chiunque sia interessato a creare oggetti o ambienti interattivi. Arduino può percepire l’ambiente, riceve l’input da una varietà di sensori e può influenzare l’ambiente circostante controllando luci, motori ed altri attuatori. Con la scheda si possono creare oggetti interattivi senza bisogno di un grosso investimento dal momento che le schede possono essere costruite a mano o acquistate già assemblate (al prezzo di 20$) e il software può essere scaricato gratuitamente. I disegni di riferimento dell’hardware (file CAD) sono disponibili sotto una licenza open-source, ma liberi di essere adattatati alle esigenze del costruttore.

Prima le macchine manipolavano bit, ora sono passate agli atomi. Dopo che Microsoft e Apple (ma ricordiamoci anche della Olivetti) hanno lanciato la rivoluzione digitale da un garage, cosa ci possiamo aspettare da un esercito di anonimi costruttori che ha iniziato a giocare con le nuove tecnologie per costruire oggetti fisici?

Industrial productivity can be achieved on a small scale?

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Manland

Ikea nel suo flag-ship store di Stoccolma ha introdotto di recente una interessante novità: una “nursery” riservata agli uomini, con calcio da tavolo, riviste sportive, videogiochi e canali tv. Il motivo di questo nuovo esperimento sembra sia dovuto al fatto che i giovani padri si annoiano a morte a fare shopping. Dunque, dopo lo spazio per i più piccoli con la famosa stanza piena di palline colorate che è stata una delle tante innovazioni di successo dell’azienda svedese, perché non pensare a uno spazio anche per i papà?

La notizia mi è capitata sotto mano in questi giorni, reduce da un incontro organizzato nella sede di Ariele con Massimo Recalcati, autore di un interessante pamphlet dal titolo intrigante, “Cosa resta del padre?”, che recentemente ha avuto un grande successo di pubblico.

Recalcati, psicoanalista lacaniano, recupera da Lacan alcuni concetti fondamentali. In particolare, la visione critica di una contemporaneità “postmoderna”, in cui l’evaporazione del padre già anticipata da Lacan produce la frammentazione del soggetto attraverso innumerevoli forme di godimento illimitato. L’universo del consumo diventa quindi una sorta di gigantesco “paese dei balocchi”, nel quale non esistono limiti o  barriere alla volontà di possesso individuale. Da una società fondata sulla regola e sulla frustrazione del desiderio (la società della proibizione edipica, regola assoluta che fonda tutte le altre regole) siamo passati nel giro di pochi decenni a una società fondata sulla obbligatorietà assoluta e illimitata del godimento, nella quale ogni forma di limite viene cancellata insieme a ogni forma di coesione sociale. Le malattie psichiche del nostro secolo, anoressia, bulimia, autismo, sono alla fine sintomi di questa frammentazione disperata del soggetto, che cerca di ristabilire una forma di controllo spietato sul proprio corpo (anoressia), o che si lascia andare a una deriva priva di controllo (bulimia), sottraendosi a ogni tipo di relazione con gli altri (autismo).

L’evaporazione del padre, figlia della frattura generazionale del ‘68, se da una parte segna la progressiva scomparsa di un Super-Io repressivo e dispotico (il padre-padrone dell’Edipo), dall’altra determina anche l’impossibilità di ricostituire una qualche forma di regola a fondamento del legame sociale, con la conseguente deriva anomica e frammentazione inevitabile del soggetto.

Cosa resta dunque del padre nella società post-moderna? Recalcati sembra ipotizzare un recupero della figura paterna attraverso Il valore fondamentale della testimonianza di vita, una sorta di eredità da lasciare ai propri figli sganciandola dall’assoluto della regola; da qui il fascino delle storie, l’influenza del carattere e di quello che viene comunemente definito il “fascino carismatico” di alcuni personaggi.

Tuttavia, ho più volte proposto in questo spazio e anche altrove una diversa possibilità di lettura, oggi, del fenomeno carismatico, dove il carisma può essere legato molto meno a caratteristiche di personalità e di storia individuali e molto di più a capacità di aggregazione di energie sociali collettive.  Questa possibilità parte prima di tutto da una diversa visione del contesto sociale contemporaneo e da una personale perplessità sulle implicazioni legate alla teoria critica della società post-moderna. Pur riconoscendo infatti una potente fascinazione intellettuale alle “macchine desideranti” create dal “discorso del capitalista” (vedi Deleuze e Guattari del Anti Edipo,  Jean Baudrillard, e certamente Lacan) di cui molto si parlava negli anni ‘70 e ‘80, ho sempre pensato che portassero quasi inevitabilmente a un intellettualismo esasperato e a un vicolo cieco del pensiero, la cui conclusione non poteva essere altro che un’implosione su se stesso; come del resto aveva ben capito lo stesso Baudrillard.

Nel frattempo tuttavia, fuori, nel mondo reale, succedevano tante cose interessanti. Nel frattempo, il bisogno di comunità negato nel reale generava la comunità globale di internet, in cui venivano proposte nuove regole, più “fraterne” (fondate su competizione  e talento) che “paterne” (fondate sulla gerarchia); nel frattempo, la socialità perduta veniva recuperata prima nel mondo virtuale e poi in quello reale, stabilendo forme di scambio fondate su reciprocità e condivisione; nel frattempo, la sovrabbondanza illimitata del godimento individuale cedeva il passo a un’abbondanza di comunicazioni e di interazioni collettive che pongono, certamente, il problema del limite, ma in un modo del tutto nuovo. Il nuovo limite non è a mio avviso né una regola autoritaria né un’eredità del passato, ma una “scoperta personale” che viene dalla voglia di sperimentare nuove strade, non ancora esplorate, e di farlo possibilmente insieme ad altri, perché così è più facile lasciarsi andare a una qualche forma di deriva e creare l’occasione per rielaborare creativamente per conto proprio nuove soluzioni.

 

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Chi sono io?

Mentre rispondo a offerte di lavoro in giro per il mondo (lavorando su yachts ho circa il 73% della superficie terrestre come campo d’azione), mi chiedo cosa stia cercando davvero, se l’essere flessibile e pronto a partire per qualsiasi destinazione nasconda una confusione mentale e di identità. Passo moltissimo tempo a leggere e rispondere a offerte, su siti specializzati, frequento annunci di forum, insomma surfo la Rete per cercare un posto dove surfare veramente le onde. Un giorno fremo perchè mi assumano in Indonesia, un altro sogno le aragoste e il clima malinconico della Nuova Scozia e del Maine, un altro ancora spero di essere su un catamarano che organizza safari per kitesurfisti a Tobago. Gli annunci di lavoro su internet sono un bel modo per far correre l’immaginazione.

Come usiamo la tecnologia in relazione alla vita e alla professione che svolgiamo? Per alcuni la Rete e i suoi supporti tecnologici sono dei moltiplicatori di identità e di opportunità per altri uno strumento attivo di costruzione e mantenimento di un’ identità che è molteplice. Da un lato abbiamo quindi una dispersione e frammentazione della personalità, , potenzialmente spaventosa, dall’altro un collage di parti di sè che possono coesistere e dar conto di una complessità ineliminabile. In che modo le mie differenti entità digitali rispecchiano le mie esigenze e l’immagine che voglio dare di me? E’ tutto veramente possibile?

Credoche su questo terreno si stia già giocando una sperimentazione rapidissima, sono gli stessi individui a giocare e a giocarsi seguendo spinte più o meno inconsce e inconsapevoli. Avere differenti identità è segno di ipocrisia o di falsità? O una risorsa per far emergere il lato di sè più appropriato a seconda dei contesti e degli interlocutori? Oggi mi sembra che siamo di fronte a un gioco teatrale, dove indossiamo maschere ma soprattutto possiamo sviluppare queste maschere, attraverso interfacce digitali, suoni, foto, video. Sviluppando il profilo di un social network mettiamo in evidenza peculiarità o mostriamo quello che vogliamo di noi. Si può addirittura modificare il proprio profilo a seconda dell’offerta di lavoro cui si decide di rispondere, come un tempo si facevano limature e tagli sul CV.

Attraverso la ricostruzione costante di sè, quotidiana nel caso dei social network, possiamo  rivitalizzare strati dimenticati, trascurati della nostra esperienza passata, riunificare campi dell’esperienza che apparivano come scissi, separati. Oppure semplicemente apparire come desideriamo che gli altri ci vedano, quindi immaginarci.

Dove trovare un contenitore per tutte queste identità e parti di sè attivate nelle interazioni social? Credo che la rete stessa possa portare delle soluzioni a questi problemi. Iteragire attraverso social media ispira una certa riflessività su se stessi e su quello che sta succedendo, il tutto attraverso un modalità immediata e spontanea.

Chi sono io? Dipende da chi me lo domanda.

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SOTTO IL PAVE’ SPIAGGE INFINITE

Tra tutti gli slogan del 68 questo è sempre stato il mio preferito!
Bastava chiudere gli occhi per immaginarle, quelle spiagge, e la certezza della loro esistenza serviva anche a dare un senso a qualche ciottolo divelto dal pavé.
Mi è sempre piaciuto perché contiene una potente idea di futuro: la forza dell’immaginazione, che dà forma all’ignoto, e corpo e sostanza a un pensiero ancora vago e incerto.
Questa è l’idea che mi è tornata in mente qualche giorno fa, reduce da un incontro/dialogo in Ariele con Elena Pulcini, brillante rappresentante della new wave della filosofia italiana. Nel suo libro La Cura del Mondo la Pulcini parla di alcuni temi in apparenza molto “belli”, come dono, gratuità, immaginazione; che però mal si incastrano in uno scenario di partenza “catastrofico”, in cui i due grandi mali del nostro tempo, che lei definisce “individualismo illimitato”- l’onnipotenza dell’io – e “comunitarismo endogamico” – l’ossessione del noi -, fanno a gara nel metterci in una condizione di diniego di ogni speranza di futuro.
Per uscire da questa impasse e recuperare un rapporto possibile con il mondo, persino la “paura” può costituire un antidoto efficace: non la paura che produce angoscia paralizzante, tuttavia, ma una nuova forma di paura “hobbesiana”, capace di mobilitare energie e progetti attraverso la consapevolezza della vulnerabilità del nostro mondo e della necessità di recuperare legami sociali di solidarietà. Una forma di paura, tutto sommato, non molto diversa da quella che descrive Naomi Klein nel suo The Shock Doctrine, in cui la violenza che si propone come obiettivo di annichilire e distruggere i legami sociali – quella delle grandi catastrofi e dei grandi totalitarismi, dal colpo di Stato in Cile allo tsunami in Tailandia – è però anche capace di produrre degli “anticorpi solidali” che generano progettualità sociale attraverso la riscoperta di antichi valori comunitari. Oppure quella descritta da Corey Robin, noto politologo americano, nel corso di una intervista che gli feci alla fine del 2007 a New York, in cui sottolineava come la paura, che è stato un grande tema politico da Machiavelli in poi, affondi le sue radici come motore di conoscenza nel giardino dell’Eden. Il suo bestseller Paura: storia di un’idea politica inizia con la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, e con una fatidica frase: “Attraverso la paura, comprendono”. La paura in questa prospettiva sembra diventare dunque conoscenza, consapevolezza della propria condizione, e potenzialmente, uno strumento di cambiamento.

Ho sempre pensato che due dei più celebrati protagonisti del nostro tempo, Zygmunt Baumann e Richard Sennet, siano stati, a mio parere, alquanto sopravvalutati: senza nulla togliere alla profondità della loro riflessione, hanno infatti secondo me molto contribuito a cacciare in un cul-de-sac il pensiero filosofico e sociologico, poiché mi è sempre sembrato che l’accento sulla società liquida e sulla perdita del legame sociale poco potessero contribuire a dare nuove prospettive di senso a tutte le potenzialità progettuali che oggi oggettivamente si sono aperte grazie, anche, alle nuove tecnologie.
“We have to be better at believing the impossibile”, sostiene Kevin Kelly, grande guru del web.
E’ possibile che la tecnologia non possa risolvere da sola tutti i nostri problemi; è anche possibile che abbia in parte notevolmente contribuito ad aumentarli. Ma sono fermamente convinta che si è rivelata negli ultimi venti anni il più grande serbatoio di innovazione, non solo tecnica ma anche per la costruzione di nuovi legami sociali; e che sia solo attraverso la comprensione di queste nuove potenzialità che si stanno manifestando potentemente nel contesto sociale, come il fermento rivoluzionario del Nordafrica con forza testimonia, che il potere dell’immaginazione può emanciparci da un presente angusto e restituirci la capacità di progettare il futuro.
Più ancora della costruzione di legami sociali, abbiamo bisogno di tornare a immaginare, sotto il pavè, le spiagge nascoste….

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Fuori dal mio recinto. Se mi va.

 

E’ un’idea nuova quella dei software per la collaborazione? Dipende da cosa si intende per software. Il termine ha origine durante la II guerra mondiale dal tentativo inglese di decriptare i codici della macchina tedesca Enigma: le istruzioni, scritte su pagine solubili, furono battezzate software. Come primi anatomisti, i crittoanalisti inglesi si trovarono di fronte a un corpo aperto, conosciuto nella sua struttura fisica (hardware), a indagare l’input sensibile, la componente tenera, misteriosa, vitale.

Cosa è e cosa fa una macchina? Facilita il lavoro dell’uomo o lo automatizza? Supporta o sostituisce? Ha senso distinguere queste fasi del processo creativo? Non c’è scoperta hard che possa essere attribuita al singolo, ma sempre ad una collaborazione (più o meno conscia, più o meno sincrona) di diverse menti competenti e appassionate. Software è in questo senso il continuo perfezionarsi di un pensiero sulla tecnologia esistente.

Perciò un software è collaborazione. Il grado di automazione (e alienazione, e noia) è direttamente proporzionale al grado di controllo della cultura che lo accoglie. Irene Greif, director of collaborative user experience IBM, esperta di computer-supported cooperative work, racconta del software Lotus Notes (prima release 1989):

anybody could create a Notes database on a server and set up access control in a very intuitive way. Anyone, not a database administrator, could create a place to meet. Slowly, over time, [IT managers demanded more control]. You would have to submit a request to create a database; you would have to submit a request to change access control. As a result, a lot of places [that use Notes] don’t have the “group experience” in Notes, and they just use it for e-mail.

Il piú elementare dei software è potenzialmente social. E’ la cultura in cui evolve a segnarne l’efficacia: “it is not about the technology per se, but more about finding technologies that are resilient against controls [by management]”.

Il fattore top-down è coltivare management non autoritario, ma autorevole, che privilegi la relazione emergente al controllo. Il fattore bottom-up è un fatto di fiducia: “People have to trust each other to do that. It is risky to show people your unfinished thoughts. Technologies for a long time could let you do that; people did not always do that”.

Affinché si condividano pensieri e prodotti semilavorati non basta un goal condiviso, una casacca dello stesso colore, ma l’idea interiorizzata che questa condivisione tra pari (competenti, appassionati) avvenga per spostare l’orizzonte di innovazione piú in lá di quanto il singolo possa.

In definitiva, il vero fattore social è quello di mitigare (almeno in alcune fasi) spinte top-down e bottom-up a favore di un’iper-architettura organizzativa ove tutto (controllo, autonomia, ricompensa) trami all’iper-efficacia innovativa.

Se il software nasce social, la cultura social é da testare, da imparare, da insegnare. L’Occidente va in direzione contraria al social almeno dal 1700, dagli Enclosures acts, leggi di recinzione dei campi che portarono all’incremento della produttività agricola.

Peró ora si percorrono open lands, si lavora sull’High-innovation, che è un po’ differente dall’High-farming, dall’accumulo. Necessitiamo un transito dall’ideologia (consumismo, capitalismo, colonialismo…) all’idea. Un’idea da amare, un desiderio. E’ difficile diventare social? No. Semplicemente lo faccio se mi va. Trancio il mio recinto, apro il mio wi-fi, condivido una mia idea, se mi va.

 

 

 

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Spazio intermedio

In quella banca d‘affari tutti parlavano dell’andare all’estero, dell’internazionalizzazione, come di un salto logico, un’avventura, un azzardo. Un viaggio verso l’ignoto, lontano dalle rassicuranti geometrie della terra madre, laddove le regole gli idiomi sono famigliari e non si è uno dei tanti. Tutti ne parlavano come si parla delle terre nemiche prima di una guerra sognando onori e temendo sventure. Andare all’estero sembrava per tutti rappresentare l’unico modo per sopravvivere.

Mi mancavano le parole per esprimere ciò che sentivo in quella consulenza. Sapevo che si stava parlando dell’Altrove, del contatto con lo Straniero, con l’Altro. Ma cos’è questa terra che non è la terra Madre, che il luogo in cui ci si perde e si riguadagna se stessi, in cui si smarriscono regole note e si conquistano nuovi significati?

La lettura di un testo di Sergio Vitale mi ha aiutato a comprendere che stavo cercando lo Spazio Intermedio. Nel tempo contemporaneo il viaggio è privo della sua conclusione. “E’ svanita l’idea di un ingresso ed un’uscita in quanto estremi della condizione intramondana. Acquista importanza assoluta la medietà come carattere costitutivo dell’esistenza, il nostro <<stare nel mezzo>> da sempre in vista delle cose ultime e nell’impossibilità di raggiungerle” (pag.13)

Il tempo non è più storia (il tempo non è più ciclico, come nella società antica, o freccia, come nell’età industriale), ma successione di frammenti. La prospettiva di non raggiungere un fine, ci consegna alla necessità di sviluppare un’incessante capacità interpretativa, in grado di cogliere sempre nuovi significati dietro o sotto la realtà fenomenica.

Una visione pessimista? Può darsi. Però colgo un’analogia tra lo spazio intermedio frammentato e ricorsivo con lo spazio in rete. Uno spazio che come disse Kracauer è “un universo inesauribile la cui interezza sfugge perpetuamente” (Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, 1960).

Mondo Novo, Gianbattista Tiepolo, 1791

Una vertigine che non si può sfuggire, altrimenti si sta a guardare come fanno le maschere in questa strana e geniale opera di Tiepolo (che il mio amico Paolo Izzi mi ha fatto conoscere) che rappresenta la riluttanza di Venezia ad affrontare il mondo nuovo.

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Social innovation: una porta disegnata sul muro

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Un “sentire” 2.0, fatto di pratiche quotidiane di collaborazione e condivisione, esiste e ha diffusione globale, che si tratti di forme di intrattenimento o di engagement in processi creativi. Ciò è tanto reale che l’innovazione muove sempre più su reti informali di persone, piuttosto che in ambienti pre-strutturati. È tanto concreto che si comincia ad avvertire un “sentire comune” 2.0, soprattutto in prospettiva del ricambio generazionale. Ed è tanto dirompente, questo transito cognitivo all’apertura, che interessa ora anche il business. Sembra che dinamiche conversazionali alla creazione possano essere travasate laddove il valore economico viene perseguito – l’azienda – e che l’entusiasmo collettivo all’approccio social possa alimentare progetti strategici.

Hansen e Tapp, sull’Harvard Business Review, parlano di un Chief Collaboration Officer (CCO), una persona che accompagni il salto alla collaborazione. È antica quanto l’azienda l’idea che i suoi attori lavorino meglio come “team players with their peers”, ma l’idea non è più sufficiente, ora bisogna “get employees to work across silos”. Transitare attraverso i diversi silos di sapere per mettere in dialogo conoscenze pregiate significa passare dai tanti processi (e dipartimenti) ad un processo integrato (vedi Quintarelli sul social CRM); compito del CCO è trovare una “holistic solution to collaboration, one that involves strategy, HR, product development, sales solutions, marketing, and IT. In short, he needs to be a masterful collaborator”.

Un tale cambio di strategia richiede persone che sappiano pensare (e vogliano esplorare) la condizione di masterful collaborator: condizione ossimorica, perché in una enterprise 2.0 matura ogni attore dovrà essere chief e collaborator, e temporanea, poiché fra queste vesti l’attore muoverà più per capacità contestuale di influenza che per crescente diritto. Insomma, meno ruolo e più interpretazione: che i leader cedano parte della loro mastery, e i collaboratori facciano un passo avanti a prendersene un pezzetto. Si richiede d’esser solidi e di saper oscillare. L’essere umano sa affrontare e dominare condizioni esistenziali dissonanti e provvisorie, così distanti dall’innato desiderio di sicurezza, se e solo se la sfida è sentita, cruciale. Come in certi film sci-fi, corri e trapassi al di là dal muro solo se ci credi intensamente.

Perció si parla ora dell’entusiasmo social: si confida che qualcosa verrà da questo nuovo “sentire” nato sul web, che esso sublimi qua e lá in social innovation monetizzabile. Ma gli argomenti sono anch’essi dissonanti, ambigui: un’eminenza quale Umberto Eco, intervistato da Vanity Fair per il suo progetto Encyclomedia, afferma che la verità vada cercata “nel confronto, nella discussione continua” e che per vivere civilmente occorra “un sapere collettivo e condiviso”; ma dice pure che “un libro prima di uscire è vagliato, esiste un filtro. Su internet invece tutto esce, anche quel che non vale niente, e non ci sono avvertenze per l’uso”, e che questo filtro debba essere “la comunità scientifico-culturale”. La gente, secondo Eco, “ha paura di minare le basi dell’intesa, ha istinto di conservazione, vuole che il sapere derivi da fonti garantite”.

Noi però conosciamo il rapporto tra gli errori presenti in Wikipedia e quelli in un’enciclopedia classica, ad esempio. Sappiamo che le attuali sfide socioeconomiche superano la mera esigenza di conservazione; che queste sfide saranno vinte andando proprio a minare le basi di una intesa internazionale solida quanto fallimentare; che esse saranno vinte non da comitati ma da comunità. Una possibile porta è tracciata col gesso sul muro; la provocazione, le risa malcelate, la certezza, in fondo, che il matto andrà a sbatterci la testa – lo sappiamo – fanno parte di ogni narrazione della meraviglia. Afferma Eco che “c’è differenza tra materiale libero e di qualità”; vero, e noi sappiamo che il secondo è da cercare, collettivamente, entro il vasto caos del primo, con singolare coraggio, un po’ di rincorsa, e…

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