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Occupy Sandy: il riciclo al tempo dei network

Ho soppesato per un secondo la parola “riciclo” prima di utilizzarla nel titolo. Devo confessare che anche se mi considero piuttosto ecologista la mia mente continua a portarsi dietro un’associazione negativa della parola “riciclare”. Riciclato è qualcosa di non originale, non innovativo, non nuovo. Ma così com’è arrivata, l’associazione negativa è stata subito ricacciata indietro. Riciclare è etico, bello e funziona. E si può fare anche con i network.

Vi ricorderete senz’altro dell’esperienza Occupy Wall Street, “We are the 99%”. Ne avevo scritto su questo blog circa un anno fa e la vicenda ha avuto ampio spazio nell’opinione pubblica mondiale, come esempio di un’efficace e ampia forma di mobilitazione sociale e politica. L’entusiasmo e la resistenza al rigido inverno newyorkchese sono scemati tra gli occupanti dello Zuccotti Park (e del resto degli Stati Uniti) che avevano dato vita a questa prima spettacolare protesta, ma l’esperienza è stata capitalizzata con la creazione di un network permanente, interoccupy.net .

Il network cerca di favorire la comunicazione tra individui, gruppi di lavoro e le Assemblee Generali locali, che sono la spina dorsale del movimento. Le Assemblee Generali dichiarano di “utilizzare la democrazia diretta e i processi decisionali di tipo orizzontale al servizio degli interessi del 99%”. Quello che si è spontaneamente creato e sviluppato a partire dai giorni della protesta ha preso la forma stabile di un network di gruppi di lavoro impegnati su diversi fronti. Esiste un network, ora usiamolo! Il Coordinamento è stato il bisogno intorno a cui è nato IO:

InterOccupy (IO) is an interactive space for activists looking to organize for global and local social change. By October 2011, the Occupy Movement in the US was in full swing with hundreds of encampments spread across vast distances. The need for a robust communication network became apparent when camps had trouble contacting one another in order to share important information about the suppression of the movement.

L’utilità della tesorizzazione di un’esperienza di network orizzontale si vede nelle azioni di aiuto e volontariato nelle zone martoriate dall’uragano Sandy: intere porzioni di città ancora senza elettricità, attività commerciali annientate dall’ingenza dei danni, mancanza di generi di prima necessità. In questo scenario la risposta delle autorità è presente, ma come spesso succede è lenta e inefficace a coprire interamente i bisogni di una comunità in seria difficoltà. Occupy Sandy è una delle entità coinvolte nel sostegno alle comunità colpite dal dramma dell’uragano, e a quanto pare ci riesce molto bene grazie all’efficacia del coordinamento orizzontale sviluppato nei mesi della protesta.

La scorsa domenica ho partecipato con la mia ragazza ad un’azione di volontariato per Occupy Sandy. Avere un’auto con carburante in questi giorni a New York City è da considerarsi un privilegio e Kate ha pensato che potesse essere di grande utilità. Il centro di Occupy Sandy a cui ci siamo rivolti per offrire questo prezioso aiuto è situato in una chiesa in Brooklyn. L’edificio ospita un centro di raccolta e coordinamento degli aiuti che vengono poi smistati nelle aree disastrate. Questi centri sono situati in differenti zone della città per una maggiore capacità di raccolta delle donazioni. Nel modello dei network orizzontali non esiste un Centro sovraordinato, ma tanti nodi che svolgono una funzione territoriale indipendente ma coordinata e che permettono di organizzare i diversi aiuti individuali. C’è chi dona del cibo e beni di prima necessità, chi tempo e forza lavoro, chi vuole cucinare, chi ha un’automobile, e così via.

Il centro di raccolta aiuti brulicava di gente riunitasi con le più svariate qualifiche e disponibilità, una catena umana andava dal marciapiede fino all’interno della chiesa passandosi le provviste, persone andavano e venivano dalla cucina o dai banchi di distribuzione, ragazzini entusiasti cercavano di rendersi utili. Appena scoperto che avevamo un’auto e desideravamo condividerla siamo stati registrati attraverso i computer e ci è stata affidata la missione di consegnare due assistenti sociali e una serie specifica di provviste per una zona di Brooklyn chiamata Red Hook. I coordinatori degli aiuti sembravano avere una chiara idee di cosa servisse e dove, in modo da canalizzare e distribuire efficacemente le risorse e le provviste. Insieme ai due assistenti sociali abbiamo consegnato candele, torce elettriche, medicine, dentrifrici e spazzolini, pannolini e prodotti per l’igiene infantile. A missione compiuta abbiamo riportato telefonicamente al centro di coordinamento l’avvenuta consegna.

Il modello e le relazioni createsi nell’esperienza di Occupy Wall Street sembrano aver portato ad un network coordinato in grado di rispondere a diversi scopi ed esigenze. Esiste senz’altro una vision di fondo, legata a quanto sperimentato nel corso della mobilitazione politica dell’autunno scorso, ma il modello di processo decisionale orizzontale e la democrazia diretta sembrano oggi rispondere a diverse esigenze che gli attivisti di volta in volta mettono in campo. La Rete e i siti web servono come centro di coordinamento e informazione ma sono poi le persone reali che spendono tempo e energie per portare a termine le differenti missioni. Gli aiuti alle popolazioni colpite da Sandy offrono un’arena di confronto tra modelli gerarchici e modelli orizzontali. Questi ultimi si stanno dimostrando efficaci nella risposta ad una situazione di crisi grazie alla rapidità delle azioni e alla flessibilità organizzativa garantite da una collaudata funzione di coordinamento. Un modello da imitare e “riciclare”.

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Competere è bello

Il mio intervento sul tema della Social Enterprise (o enterprise 2.0) presso la corporate university di un cliente,  mi ha consentito di portare avanti alcune riflessioni che voglio condividere.

Vengo teorizzando nell’ultimo periodo nei blog in cui scrivo, in particolare qui e qui, la rilevanza del codice dei fratelli nella costruzione delle nuove culture P2P. Devo alla lezione di Giancarlo Trentini e di Massimo Bellotto, l’adozione dei codici affettivi di Fornari come chiave di lettura simbolica attorno alla quale si sviluppano le culture organizzative.  L’adozione di modelli up down, che fanno riferimento a capi che gestiscono collaboratori adottando la cultura del comando e controllo, implicitamente è inscritta in un paradigma che legge la realtà attraverso relazioni verticali. Relazioni analoghe a quelle che si vivono nel contesto famigliare in cui come figli ci relazioniamo a nostro padre (che ci chiede performance e rispetto delle regole) oppure a nostra madre (che ci cura e ci dona affetto senza condizioni).

Insomma è come se avessimo costruito sistemi organizzativi in cui il primato spetta a questi codici affettivi ed in cui l’altro codice affettivo, quello dei fratelli ha un ruolo inesistente (nelle burocrazie) oppure minore (nelle aziende tecnocratico manageriali).

La tesi che sostengo è che la rivoluzione P2P apre uno scenario in cui il codice dei fratelli acquisisce un rilevo equivalente a quello paterno e materno.

Lo studio del codice dei fratelli rivela che esso si articola in due dimensioni: una distruttiva ed una costruttiva. E’ evidente che tra fratelli vi sono sentimenti di gelosia e di invidia generati dalla competizione per ottenere l’amore dei genitori. Ho due figlie piccole e per me è assolutamente evidente. La più grande manifesta a tratti sentimenti di profonda insofferenza verso la sorellina, specie nei momenti in cui io e mia moglie ci prendiamo cura della piccola.

L’osservazione di mia figlia mi mostra anche la componente generatrice della fratria. I fratelli sono complici e sodali, imparano a divertirsi insieme se l’età rende possibile fare gli stessi giochi. Questo aspetto è molto interessante. Mi considero un formatore soprattutto, ed è molto interessante vedere nelle aule come non appena si propone un gioco le persone si attivano e “competono”. Lasciandosi andare emergono spesso, anzi sempre i meccanismi competitivi a somma zero, caratterizzati da carico (adrenalina da competizione) e scarico energetico (euforia per la vittoria, oppure depressione per la sconfitta) così come Reich ce li ha insegnati. Sistematicamente arriva il “bravo formatore” che dà una tirata d’orecchie agli allievi e li riporta al dovere di un approccio più razionale e consapevole della teoria e dell’approccio di turno. Gli oltre 200 dilemmi del prigioniero che ho condotto (in almeno 10 varianti) e l’osservazione che nel 95% dei casi prevalgono le dinamiche competitive mi induce a pensare che dietro debba esserci un motivo profondo. So anche che da qualche parte ci sono studi che dimostrano che la cooperazione è la dimensione “naturale” dell’uomo, ma per il momento non voglio considerarli. Lavoro su questa ipotesi e sostengo che la competizione (tra fratelli) è fonte di energia psichica. La competizione tra fratelli sviluppa energia psichica e quindi “tira fuori dal nido”. Il superamento del caldo abbraccio della famiglia è possibile perché la fratria costringe a superare i propri limiti e a crescere. Allora è evidente che la fratria è una fonte di apprendimento. In questa learning era, in cui lo sviluppo è possibile solo se si generano positive spirali di sviluppo della conoscenza e dell’innovazione acquisisce peso il codice dei fratelli.

Dunque nell’età della globalizzazione si generano le condizioni per l’affermazione del codice affettivo in cui l’apprendimento, la collaborazione, l’iniziativa dal basso sono maggiormente valorizzati.

Concludo con la meravigliosa immagine proposta da una partecipante nel finale del corso. Facendo un’analogia con le bellissime sculture di Modigliani esposte al Mart e che abbiamo visto mercoledì 23 marzo, la signora ci ha detto: la leadership del futuro è femmina. Da un lato rotonda ed accogliente (e orientata alla forma pura NdA), dall’altro ruvida, tagliata con percorsi netti, non finita.

Un’intuizione felice che disegna un itinerario per capire come cambia la leadership nei nuovi scenari. Ne riparleremo prossimamente.

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Hyper Old e Hyper New

“Odio i viaggi e gli esploratori….”: inizia così Tristi Tropici di Claude Levi Strauss, il più grande racconto di viaggi dell’ultimo secolo. Avevo diciassette anni quando ho letto Tristi Tropici, e da allora nessuna scienza e nessun racconto sono mai riusciti ad affascinarmi quanto l’antropologia, con tutto lo straordinario serbatoio di immaginazione costituito dalle diverse soluzioni che l’uomo ha saputo trovare nel corso della sua storia per risolvere gli stessi problemi. Vorrei quindi dedicare questo primo post del nuovo anno a una piccola pillola del pensiero di uno dei più grandi maestri del pensiero antropologico: alcune riflessioni sulle Lezioni Giapponesi di Levi Strauss pubblicate di recente da Rubettino, il più bel regalo di Natale che ho ricevuto quest’anno.

Levi Strauss tiene nel 1986 tre lezioni alla Fondazione Ishizaka di Tokyo, dal titolo: L’antropologia di fronte ai problemi del mondo moderno. I temi che affronta sono ancora oggi, a distanza di oltre vent’anni, di straordinaria attualità.

L’antropologia può essere paradossalmente definita come una scienza dei frammenti. Il mondo occidentale si è autoproclamato nel corso degli ultimi secoli come la civiltà del progresso, attraverso lo sviluppo, che tendiamo a considerare illimitato, della scienza e della tecnologia da una parte, e delle più “nobili” tra le scienze sociali dall’altra. Storia, filosofia, diritto, sono tutte dottrine che aspirano a individuare leggi e regole universali partendo da una visione autoriferita dei grandi macro-fenomeni sociali: bene e male, verità e bellezza, etica ed estetica, diventano così grandi imperativi morali attraverso i quali valutare e giudicare il mondo.

L’antropologia si sviluppa invece inizialmente partendo da una sorta di “curiosità da antiquario”: scienza coloniale per eccellenza, nasce dalla scoperta di nuovi mondi che hanno usi e costumi diversi; e, poiché le grandi discipline classiche tendono a trascurare i dettagli per concentrarsi sulla celebrazione dell’insieme, l’antropologia nasce in modo quasi casuale dai racconti di viaggi dei primi esploratori, commercianti, missionari, che raccoglievano testimonianze minime, descrizioni del quotidiano, dettagli problematici, frammenti pittoreschi, che spesso si rivelavano distonici rispetto alla coerenza forzata del quadro generale. Tutto ciò serviva, inizialmente, per trovare conferme alle proprie credenze su quello che veniva considerato una sorta di “passato dell’umanità”: e dunque i diversi tipi di evoluzionismo che ne sono derivati consideravano ogni modello sociale diverso da quello occidentale come una rappresentazione del passato oppure, nel migliore dei casi, come un percorso progressivo di avvicinamento all’unico modello possibile.

Ampliando il punto di vista risulta però evidente che tutte queste società considerate “arretrate” non possono essere considerate come scarti dell’evoluzione, ma che sono piuttosto, ognuna di esse, un modo originale e diverso di elaborare forme di vita sociale. Molte di queste società vengono definite “società fredde”, poiché sembra che in qualche modo si sottraggano alla storia sterilizzando al loro interno tutto ciò che potrebbe ingenerare meccanismi di cambiamento tali da causare un divenire storico immediatamente osservabile. Esse appaiono dunque, a un primo sguardo, immutabili e sempre uguali a se stesse, mentre, all’opposto, le nostre società “calde” sono caratterizzate da un costante mutamento.

Levi Strauss definisce le società calde come società ad alto tasso di entropia, causata da scarti sempre più grandi al loro interno provocati dalle crescenti diseguaglianze economiche e sociali tra i membri. Le società primitive sono invece società a bassa entropia, fondate su meccanismi egualitari di condivisione che tendono a conservare indefinitamente la condizione iniziale, e per questo sembrano viste dall’esterno società senza storia; tuttavia, esse sono concepite dai loro membri come “capaci di durare”.

Un altro tasso di entropia logora infatti i rapporti sociali e li disgrega, provocando parcellizzazione dei compiti, frammentazione del tessuto connettivo tra i membri del gruppo, allontanamento dell’uomo dal suo prodotto nel lavoro, e a lungo andare un preoccupante logoramento psicologico individuale; tutti fenomeni questi che rappresentano oggi le maggiori preoccupazioni di tutte indistintamente le scienze sociali.

Le nuove forme sociali senza gerarchia che nascono oggi nel mondo del web possono rappresentare una straordinaria occasione per immaginare nuovi tipi di relazione che sfuggano all’impasse tra staticità/cambiamento da una parte e tra uguaglianza/differenza dall’altra. Paradossalmente, è qui che l’hyper old viene in soccorso dell’hyper new, perché molte delle soluzioni e delle pratiche sociali sperimentate, ad esempio, nel corso dei secoli da gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori possono rappresentare oggi straordinari esempi creativi per nuovi modelli di leadership, di presa di decisione, di condivisione nelle nuove comunità on line e nelle nuove “leaderless organization”.

Ancora, uno dei principali fondamenti della coesione sociale interna di un gruppo è individuata da Levi Strauss nella forza cogente e nella capacità di senso del mito. Il pensiero mitico è sempre stato utilizzato nelle società primitive per ordinare e dare senso al mondo, creando delle connessioni tra natura a cultura non attraverso concetti, come fa il pensiero scientifico, ma tra immagini del mondo sensibile: cielo e terra, luce e oscurità, uomo e donna, crudo e cotto, diventano così universi di senso attraverso una logica codificata delle qualità sensibili. Il senso del mito non si esaurisce dunque al suo interno, ma appare in tutta la sua forza attraverso la concatenazione, e diventa evidente solo quando i miti sono posti in rapporto uno all’altro.

La nostra società contemporanea non ha più miti. L’ipotesi, suggestiva e soprattutto quanto mai attuale, di Levi Strauss è che la storia abbia in qualche modo colmato nelle nostre società lo spazio del mito, diventando una rappresentazione suggestiva del nostro passato attraverso una rielaborazione della memoria storica che utilizza la stessa chiave del pensiero mitico. La storia quindi, così come è utilizzata nella società contemporanea, non esprime tanto verità oggettive quanto pregiudizi e aspirazioni, e non si dà per questo un’interpretazione assoluta del passato storico ma diverse interpretazioni relative che supportano diverse mitologie.

Relatività della scienza e della storia dunque, che potrebbero tornare nel futuro a incontrare il pensiero mitico dopo averne per secoli negato la validità. In fondo, l’odierna celebrazione dello storytelling, delle biografie, delle diverse forme di revival, sono testimonianze del ritorno a un pensiero mitico ritenuto capace di attribuire un senso a un futuro possibile.

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Anonymous in difesa di Wikileaks: mobilitazione politica o terrorismo hacker?

Anonymous: il gruppo autoproclamatosi difensore di Wikileaks. La maggior parte dei membri non ha nessuna influenza riguardo la direzione del gruppo o la sua strategia. “Il nostro progetto non ha una struttura piramidale, ma solo ruoli diversi. La definizione della leadership e organizzazione dei vari progetti varia molto” ha spiegato un membro di lunga data “è tutto molto caotico, ma noi comunichiamo e cooperiamo uno con l’altro”.

Leakspin: il nome in codice della campagna lanciata da Anonymous in favore di Wikileaks.

Operation Payback: il 9 dicembre il collettivo Anonymous attacca i siti di Mastercard, Paypal, Visa. Un esperto sostiene che per l’attacco del sito di Visa fossero necessarie almeno 2000 utenti che attaccassero in contemporanea il sito.

DDoS (Distributed Denial of Service): la strategia utilizzata per mettere k.o. i siti. In pratica è un bombardamento da parte di molti utenti al sito bersaglio col fine di bloccare i servizi per gli utenti che lo necessitano in quel momento.

U.S.A. : il bersaglio della protesta, da quando Washington ha citato in giudizio Wikileaks e si sospetta abbia fatto pressioni sulle società attaccate per chiudere i loro servizi a Wikileaks.

Comunicazione: Gabriella Coleman, una professoressa dell’università di New York che ha studiato il gruppo, ha stimato che fino a mille persone partecipano ad Anonymous, “adattando i propri computer per co-ordinare gli attacchi in rete”. I leader del gruppo usano la tecnologia IRC (Internet Relay Chat), che permette ai gruppi di comunicare.

Siamo di fronte a una nuova era della mobilitazione politica? Com’è possibile oggi riunire e coordinare più di mille persone verso un obiettivo senza strutture gerarchiche e con il massimo anonimato?

Anonymous è un esempio di gruppo P2P in grado di raggiungere obiettivi complessi senza necessità di una struttura gerarchica che supervisioni e coordini. Di certo il movente, l’indignazione nei confronti delle restrizioni imposte a Wikileaks, sono un forte catalizzatore di energie e sicuramente la comunità che appoggia wikileaks si è sentita in dovere di collaborare. Una forte motivazione e le nuove teconologie rendono possibili forme organizzative fino ad oggi ritenute impossibili.

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Leaders, capitani e scappati di Casa

Parliamo di appiattimento della gerarchia, di indebolimento di poteri forti, spinti dal desiderio e ormai dalla moda di esplorare nuove tipologie di relazioni produttive, di scambio, di intrattenimento. Spinti dalla facilità di interconnessione con chi e con cosa ci piace bypassiamo posizioni organizzative, major della distribuzione e altre forme di controllo dei flussi di scambio. Siamo per l’apertura delle casseforti del controllo.

E’ una questione tecnologica che sottende sentimenti e desideri nati con le prime ribellioni verso l’ordine vigente (dall’Illuminismo in poi), fino ad arrivare alle odierne forme di cyber crimine (il dibattito sul diritto d’autore, la violazioni di informazioni riservate). E’ un desiderio di accesso, un accorciamento della strada che divide il desiderio dalla sua soddisfazione. L’era della Rete vede uno smantellamento progressivo delle posizioni gerarchiche in favore del principio di equipotenza (v. Michel Bauwens) e ridondanza delle informazioni.

Ma siamo proprio sicuri che la gerarchia è un concetto in declino, che lascerà senza combattere il posto che ha occupato in migliaia di anni di evoluzione umana? Cosa fa sì che oggi vediamo la sopravvivenza di concetti di linea produttiva nell’industria o del Senatore a vita nella politica? Dove c’è ancora bisogno di un comando e di un controllo centralizzati?

Leaders e Capitani, ovvero la fiducia

Si organizza una vacanza in barca ma i partecipanti non si sentono sufficientemente esperti, oppure si ha bisogno di una persona che si occupi della barca perché una barca costa e per godersela qualche settimana l’anno bisogna lavorare duro. Si cerca un capitano, uno skipper,ma in fondo cosa si cerca? Un decisore, un conduttore uno che sappia “come si fanno le cose”, un esperto dell’arte della navigazione. Si delega il comando a chi dovrebbe saper comandare, un leader nel senso posizionale del termine.

La legge gli attribuisce la responsabilità penale e civile della barca, i periti delle assicurazioni lo tormentano in cerca di ricostruire gli eventi, l’equipaggio smarrito e in difficoltà lo cerca con lo sguardo in attesa di ordini. L’ultima parola a bordo è la sua. Per essere rispettato deve dimostrarsi competente, proattivo nel fronteggiare i cambiamenti, rapido nel predisporre le manovre, ineccepibile sui risultati delle stesse, comunicativo nelle spiegazioni e nella ripartizione delle responsabilità. Magari non possiede il romantico tormento interiore di un Capitano Achab, l’inflessibilità del capitano di un brigantino delle Fiandre, o la spietatezza di quello al comando di una nave negriera portoghese. Nondimeno deve portare a termine il compito fino in fondo, con ogni mezzo e persona necessaria.

La barca è un mondo in scala ridotta, un microcosmo relazionale dove la presenza aleggiante del pericolo e dell’emergenza, gli spazi ristretti e la complessità delle manovre richiedono un’interdipendenza continua, gomito a gomito. C’è poca privacy, pochi momenti di pausa e raccoglimento. C’è un leader formale e dei subordinati in forte rapporto di dipendenza reciproca. Il leader si espone, ha l’autorità, non deve commettere errori. In poche parole ha in mano il potere.

Secoli fa questo potere era di vita e di morte, era un potere giuridico. Con l’ammutinamento sempre dietro l’angolo era un attimo per il capitano saltare fuoribordo e per la ciurma stabilire nuovi rapporti di potere, una auto-organizzazione. Come ci racconta splendidamente Bjorn Larsson in La vera storia del pirata Long John Silver il rapporto tra autorità e subordinati era una dinamica complessa a bordo dei velieri che solcavano i remoti e silenziosi mari nell’era delle esplorazioni e dei commerci con le nuove colonie. Una dinamica che continua a caratterizzare la Storia dell’umanità

L’unica possibilità per fare in modo che in barca (e in qualsiasi altro ambiente frequentato da umani, anche quelli virtuali) i rapporti gerarchici funzionino è la costruzione di un rapporto di fiducia tra equipaggio (“il capitano mi salverà, sa cosa fare”) e capitano (“posso delegare le responsabilità e quindi dormire in pace”). La relazione di fiducia si costruisce attraverso un dialogo costante dove gli atti – e non solo le parole – sono importanti.

Lo sanno bene i politici, che sulla costruzione della fiducia costruiscono le campagne elettorali. Lo stesso vale per prodotti (i politici possono considerarsi tali?), guru, personaggi carismatici, che sono costantemente soggetti alla reputazione al giudizio incrociato delle persone che grazie a Internet oggi hanno maggiori possibilità di espressione, di scelta, di vicinanza, di opinione. La fiducia è una cosa molto importante, bisogna ricordarlo sempre, e molto delicata, come sottolinea il detto “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”.

Scappati di casa, ovvero non fidarsi è meglio

Sempre frequentando i mari può capitare di imbattersi in una categoria particolare di capitano, annoverabile nella più ampia cerchia degli scappati di casa che ho iniziato ad analizzare altrove.

E’ al comando di un’imbarcazione che spesso conduce da solo, oppure è in compagnia di qualche altro personaggio al quale è legato da relazioni delle più varie (partner, amici, passeggeri, animali domestici).  Sono quei personaggi che se metti l’ancora troppo vicino a loro può essere che nel giro di un’ora se ne sono andati da un’altra parte. Amano scegliersi i vicini, così come i luoghi dove vivere e le attività da svolgere. Per loro i concetti di Stato e Diritto appartengono al linguaggio di un mondo quanto mai antiquato. Fare dieci passaggi in dieci dogane diverse, avere come casa una barca li mette in un punto di osservazione completamente estraneo ai normali concetti di sovranità. Quale dovrebbe essere la loro residenza? La loro nazionalità?

La bandiera che fa a caso loro è quella belga, la meno onerosa in termini burocratici e legislativi. Si spostano costantemente e prestano i loro servizi, il loro mestiere, dove capita e per chi capita, spesso attuano un’economia dello scambio e del dono, all’occorrenza piccoli contrabbandi, facendo la ”cresta” su alcuni prodotti seguendo la geografia della domanda/offerta. Sono persone che si fidano di se stesse, spesso dopo aver sperimentato i loro limiti, che apprendono continuamente a risolvere in prima persona i problemi.

Autosufficienza è il loro concetto chiave. Autosufficienza non vuol dire essere in grado di fare tutto da soli, in un delirio solipsistico, ma sapersi fare aiutare, saper stringere relazioni. Vuol dire essere coscienti che un certificato, un titolo, una posizione gerarchica, un’abile strategia di marketing, non garantiscono la tua reale competenza, la tua autorità in materia, ma che quelle si conquistano sul campo. Così, ancora una volta la fiducia si costruisce in un dialogo costante, di parole ma soprattutto di atti, attraverso relazioni genuine che vanno al di là dei ruoli e delle posizioni ricoperti. E quindi spesso non fidarsi è meglio.

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Una Chiesa senza preti? Succede in Belgio…

Consiglio la lettura di questo interessante articolo, ci si può autorganizzare anche in Chiesa!

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La tradizione democratica

Sto finendo di leggere un interessantissimo libro, “La funzione dell’orgasmo” di Wilhelm Reich; è l’opera più importante (insieme all’”Analisi del carattere”) e più famosa di questo istrionico e geniale autore,e ha come argomento centrale la trattazione della dipendenza diretta tra salute psichica e potenza orgastica. Ma non è di tale relazione che voglio parlare.

Nell’introduzione di questo scritto Reich (da buon studioso delle masse) fa un discorso di ampio respiro riguardante la democrazia. La definisce, descrive le dinamiche in essa contenute, e poi ragiona su una cosa: “La vera democrazia” dice Reich, “è un processo di lotta continuo, con i problemi posti dall’incessante sviluppo di nuove idee, di nuove scoperte e di nuove forme di vita. Lo sviluppo verso il futuro è ininterrotto e in interrompibile, soltanto quando ciò che è vecchio e senescente –ciò che ha svolto il suo ruolo a un livello precedente dello sviluppo democratico- è sufficientemente saggio da far posto a ciò che è giovane e nuovo e da non soffocarlo richiamandosi alla dignità o all’autorità formale”.

Da pisciarsi dalle risate.

Questo austriaco vissuto 70 anni fa intende come positivo, florido, arricchente per un sistema sociale democratico, il  fatto che “ciò che ha svolto il suo ruolo” debba essere sufficientemente saggio “da far posto a ciò che è giovane e nuovo”, e deve addirittura evitare di non nascondersi dietro a sistemi formali e burocratici, in cui troverebbe certamente scappatoie per incrementare il proprio potere (certo le ha messe lui). Per garantire un sistema democratico, ciò che è passato, obsoleto, non più aderente alla realtà, non più adatto ad affrontare le problematiche correnti, deve farsi da parte per poter far affermare nuove forme organizzative che, grazie a diverse chiavi di lettura, diverse visioni, diversi strumenti, conoscenze, modi di fare, hanno possibilità di riuscita. Non “maggiori possibilità di riuscita”, ho detto “possibilità di riuscita”.

Quindi questo psicologo, tra l’altro scomunicato e morto da pazzo (cattiveria inventata e infondata), non ha alcun rispetto per la tradizione?! Non esattamente.

“La tradizione è importante” dice l’orgonomista, “essa è democratica quando adempie alla sua funzione naturale che consiste nel trasmettere alla nuova generazione le buone e cattive esperienze del passato, cioè nel metterla in condizione di imparare dai vecchi errori, e di non commettere di nuovi dello stesso genere. La tradizione uccide la democrazia quando non lascia alla nuova generazione la possibilità di scelta, quando tenta di imporre che cosa debba essere considerato <buono>o <cattivo>. La tradizione dimentica spesso e volentieri di aver perso la capacità di giudicare ciò che non è tradizione.”

Altre risate (isteriche).

Trovo difficile immaginare uno scenario in cui la “tradizione uccide la democrazia”, in fin dei conti chi scrive lo fa nel periodo fascista, per di più in Austria; oggi siamo in un altro mondo, c’è più libertà, ci sono più possibilità, è evidente che l’avvertimento lanciato in questo libro è stato accolto. Per fortuna che in 60 anni si è riusciti a progredire, a evolvere e a auto- organizzarsi in base ai meriti, alle conoscenze, ai risultati ottenuti.

Meno male che la “tradizione non ha ucciso la democrazia”, se no pensate come saremmo messi.

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Bollenti spiriti

BOLLENTI SPIRITI

Bollenti spiriti, principi attivi, cosa vi fanno venire in mente queste parole? forse una rock band, o un serial tv, oppure una marca di detersivi…. certamente non pensate a un assessore…. Eppure si tratta proprio di questo: Bollenti Spiriti è un servizio dell’assessorato alle politiche giovanili della Regione Puglia nato nel 2005 per sviluppare le risorse giovanili del territorio “partendo dal basso”, per usare un termine forse abusato ma sempre gradevole,  e Principi Attivi è un nuovo bando di concorso sviluppato dalla regione per il finanziamento diretto di progetti ai giovani. Ho scoperto Bollenti Spiriti di recente, anche se Annibale D’Elia che fa parte del team è un amico di lunga data: abbiamo iniziato il progetto, dice Annibale, ponendoci una domanda fondamentale: ci siamo chiesti non perchè i giovani se ne vanno dalla Puglia, ma perchè ci rimangono. Perchè, nonostante la disoccupazione, la mancanza di prospettive, l’arretratezza culturale, la televisione, Padre Pio, ci sia ancora qualcuno che pensa di poter fare qualche cosa di interessante quaggiù; e soprattutto, che cosa pensa di poter fare.

Non voglio raccontarvi tutto quello che ha fatto e che sta facendo il team di Bollenti Spiriti,  lo scoprirete da soli se ne avete voglia, anche perchè trovate  un sacco di cose su di loro sul web. Voglio solo prendere in prestito da Annibale qualche concetto che ha introdotto nelle sue interviste, e che mi ha colpito particolarmente perchè, udite udite, fa pensare che la leaderless org si stia facendo strada persino nella pubblica amministrazione… e allora forse, dopo tutto, non è un’idea così bizzarra, no? Ad esempio, dicono i BS che bisogna porsi come obiettivo l’eliminazione della divisione tra chi sta dentro e chi sta fuori – dalle stanze del potere, si intende – distinzione non solo ingiusta, ma anche anacronistica e anti-economica, e fare in modo che le risorse arrivino direttamente a chi ne ha bisogno e soprattutto a chi ha un progetto in testa. E l’unico modo per farlo è coinvolgere direttamente e per davvero i giovani, andandoli a cercare sul territorio e cercando di capire che cosa hanno in mente ma anche nel cuore, perchè “quando vuoi bene davvero a qualcosa non accetti che qualcun altro decida per te”.
Mi viene in mente allora che forse bollenti spiriti significa capire “cosa bolle in pentola” rivolgendosi  allo spirito, alle idee, alle speranze, di tutte quelle generazioni che nonostante i bei discorsi sulle politiche giovanili sono costrette da troppo tempo a stare alla finestra a guardare “la banalità del male”, se mi lasciate passare la dotta citazione, che si muove indifferente intorno a loro.

Tutto questo somiglia in modo impressionante a ciò che sostiene il mio amico David Graeber, nel suo libro “Frammenti di un’antropologia anarchica”: che, quando chiedi un pò in giro, tutti pensano che  l’anarchia sia una bellissima cosa, ma che tuttavia sia un’utopia irrealizzabile. Perchè sarebbe bellissimo poter vivere in un mondo dove  tutti possono contribuire a prendere decisioni in modo comunitario, autonomo e responsabile, senza un centro di potere che decide per tutti, senza prevaricazioni e senza privilegi, ma purtroppo questo è impossibile. Ma, se ci giriamo indietro a guardare il nostro passato remoto, vediamo che è stato possibile eccome per un bel pò di tempo nella storia dell’umanità. E se riflettiamo bene pensando al nostro futuro, non possiamo non vedere come il modello decentrato del web, fondato sulla condivisione delle idee e sulla responsabilità sociale sia molto più funzionale del verticismo gerarchico statalista, che irrigidisce e porta all’immobilità.

Tornando a BS, tutto questo emergere di creatività e di nuovi progetti nel mondo giovanile – che ci sono davvero, vedere per credere –  farà della Puglia una nuova California? Assolutamente no, risponde Annibale al cronista che gli fa questa un pò scontata domanda, l’obiettivo non è diventare la California, ma diventare la Puglia, cioè vedere come delle cose un pò astratte come innovazione, rete, progettualità, possono diventare delle cose vive che entrano a far parte della vita quotidiana delle persone e alimentano le loro speranze verso il futuro.

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Come si sviluppa il networking mindset?

Ho già avuto modo di illustrare il concetto di Networking Mindset qui.

La ritengo una dimensione distintiva delle organizzazioni del nostro tempo. Affianca e sviluppa il Competence Mindset che ci porta a lavorare sul capitale umano.

Il Networking Mindset porta a concentrare le attenzioni degli esperti HR piuttosto sul Capitale Sociale.

Poiché sono un formatore e vivo ai confini tra teoria e prassi cerco sempre di chiedermi se un’idea nuova, mi può aiutare a leggere in modo nuovo la realtà. Non amo la pura speculazione e la lascio volentieri agli intellettuali da salotto.

Allora la domanda che mi sono fatto è “si può insegnare il Networking Mindset?”

Naturalmente dovremmo porci il problema di cosa è un Mindset e se può essere modificato. Lo farò prossimamente, ma per il momento do già un’ipotesi di soluzione ad un problema che ritengo risolvibile.

Lo scorso anno ho gestito con la mia società una serie di eventi sul Networking Mindset, in cui proponevo già, insieme ad alcuni colleghi, tecniche e metodologie di intervento.

La cosa ha suscitato un certo interesse e ho ricevuto concrete richieste in questa direzione.

Una grande Banca Retail mi ha chiesto di sviluppare un intervento per sviluppare il NM su una popolazione di un centinaio di persone di un particolare servizio.

Questo mi ha portato a riflettere sul trattamento del Mindset come cultura organizzativa e non solo individuale.

La proposta fatta riprende il modello delle Tavistock Conference. Ne ho parlato con il mio amico Elio Vera recentemente. Elio ha avuto il merito di portare in Italia e far conoscere il modello Tavistock a centinaia di manager e psicologi. Anche io tra questi ho vissuto le dinamiche organizzative che una Conference riproduce nelle sale di un grande albergo sul lago Maggiore .

Statuette MAYA: gerarchia

L’organizzazione che una Conference riproduce è di tipo tradizionale. In essa il Management ha un ruolo scisso rispetto al personale operativo (i partecipanti della Conference che interpretano il ruolo produttivo rispetto al task di apprendimento). Il management esprime dinamiche di separazione, talvolta di isolamento, come bene si è espresso Elliot Jaques negli anni 50.

Ma questa non è l’unica organizzazione esistente. L’idea che i capi siano così nettamente distinti dai collaboratori è un’idea arcaica. Nell’organizzazione 2.0 che andiamo descrivendo il disegno organizzativo prevede una maggior circolarità della leadership ed un’evoluzione dei ruoli di comando. Lo stesso disegno organizzativo prevede che i collaboratori condividano con i responsabili, in alcuni momenti, la catena del comando, interpretando un ruolo di primo piano.

Se ne può leggere un ottimo esempio nel blog di Giacomo Mason, in merito ad un wiki in una piccola azienda, prodotto collettivamente.

Allora è a questa logica che ci dobbiamo ispirare per progettare le formazione del secolo che viene. Una formazione in cui i capi apprendono a non esserlo più (almeno temporaneamente).

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Leaders, capitani e scappati di casa

Parliamo di appiattimento della gerarchia, di indebolimento di poteri forti, spinti dal desiderio e ormai dalla moda di esplorare nuove tipologie di relazioni produttive, di scambio, di intrattenimento. Spinti dalla facilità di interconnessione con chi e con cosa ci piace bypassiamo posizioni organizzative, major della distribuzione e altre forme di controllo dei flussi di scambio. Siamo per l’apertura delle casseforti del controllo.

E’ una questione tecnologica che sottende sentimenti e desideri nati con le prime ribellioni verso l’ordine vigente (dall’Illuminismo in poi), fino ad arrivare alle odierne forme di cyber crimine (il dibattito sul diritto d’autore, la violazioni di informazioni riservate). E’ un desiderio di accesso, un accorciamento della strada che divide il desiderio dalla sua soddisfazione. L’era della Rete vede uno smantellamento progressivo delle posizioni gerarchiche in favore del principio di equipotenza (v. Michel Bauwens) e ridondanza delle informazioni.

Ma siamo proprio sicuri che la gerarchia è un concetto in declino, che lascerà senza combattere il posto che ha occupato in migliaia di anni di evoluzione umana? Cosa fa sì che oggi vediamo la sopravvivenza di concetti di linea produttiva nell’industria o del Senatore a vita nella politica? Dove c’è ancora bisogno di un comando e di un controllo centralizzati?

Leaders e Capitani, ovvero la fiducia

Si organizza una vacanza in barca ma i partecipanti non si sentono sufficientemente esperti, oppure si ha bisogno di una persona che si occupi della barca perché una barca costa e per godersela qualche settimana l’anno bisogna lavorare duro. Si cerca un capitano, uno skipper,ma in fondo cosa si cerca? Un decisore, un conduttore uno che sappia “come si fanno le cose”, un esperto dell’arte della navigazione. Si delega il comando a chi dovrebbe saper comandare, un leader nel senso posizionale del termine.

La legge gli attribuisce la responsabilità penale e civile della barca, i periti delle assicurazioni lo tormentano in cerca di ricostruire gli eventi, l’equipaggio smarrito e in difficoltà lo cerca con lo sguardo in attesa di ordini. L’ultima parola a bordo è la sua. Per essere rispettato deve dimostrarsi competente, proattivo nel fronteggiare i cambiamenti, rapido nel predisporre le manovre, ineccepibile sui risultati delle stesse, comunicativo nelle spiegazioni e nella ripartizione delle responsabilità. Magari non possiede il romantico tormento interiore di un Capitano Achab, l’inflessibilità del capitano di un brigantino delle Fiandre, o la spietatezza di quello al comando di una nave negriera portoghese. Nondimeno deve portare a termine il compito fino in fondo, con ogni mezzo e persona necessaria.

La barca è un mondo in scala ridotta, un microcosmo relazionale dove la presenza aleggiante del pericolo e dell’emergenza, gli spazi ristretti e la complessità delle manovre richiedono un’interdipendenza continua, gomito a gomito. C’è poca privacy, pochi momenti di pausa e raccoglimento. C’è un leader formale e dei subordinati in forte rapporto di dipendenza reciproca. Il leader si espone, ha l’autorità, non deve commettere errori. In poche parole ha in mano il potere.

Secoli fa questo potere era di vita e di morte, era un potere giuridico. Con l’ammutinamento sempre dietro l’angolo era un attimo per il capitano saltare fuoribordo e per la ciurma stabilire nuovi rapporti di potere, una auto-organizzazione. Come ci racconta splendidamente Bjorn Larsson in La vera storia del pirata Long John Silver il rapporto tra autorità e subordinati era una dinamica complessa a bordo dei velieri che solcavano i remoti e silenziosi mari nell’era delle esplorazioni e dei commerci con le nuove colonie. Una dinamica che continua a caratterizzare la Storia dell’umanità

L’unica possibilità per fare in modo che in barca (e in qualsiasi altro ambiente frequentato da umani, anche quelli virtuali) i rapporti gerarchici funzionino è la costruzione di un rapporto di fiducia tra equipaggio (“il capitano mi salverà, sa cosa fare”) e capitano (“posso delegare le responsabilità e quindi dormire in pace”). La relazione di fiducia si costruisce attraverso un dialogo costante dove gli atti – e non solo le parole – sono importanti.

Lo sanno bene i politici, che sulla costruzione della fiducia costruiscono le campagne elettorali. Lo stesso vale per prodotti (i politici possono considerarsi tali?), guru, personaggi carismatici, che sono costantemente soggetti alla reputazione al giudizio incrociato delle persone che grazie a Internet oggi hanno maggiori possibilità di espressione, di scelta, di vicinanza, di opinione. La fiducia è una cosa molto importante, bisogna ricordarlo sempre, e molto delicata, come sottolinea il detto “fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”.

Scappati di casa, ovvero non fidarsi è meglio

Sempre frequentando i mari può capitare di imbattersi in una categoria particolare di capitano, annoverabile nella più ampia cerchia degli scappati di casa che ho iniziato ad analizzare altrove.

E’ al comando di un’imbarcazione che spesso conduce da solo, oppure è in compagnia di qualche altro personaggio al quale è legato da relazioni delle più varie (partner, amici, passeggeri, animali domestici).  Sono quei personaggi che se metti l’ancora troppo vicino a loro può essere che nel giro di un’ora se ne sono andati da un’altra parte. Amano scegliersi i vicini, così come i luoghi dove vivere e le attività da svolgere. Per loro i concetti di Stato e Diritto appartengono al linguaggio di un mondo quanto mai antiquato. Fare dieci passaggi in dieci dogane diverse, avere come casa una barca li mette in un punto di osservazione completamente estraneo ai normali concetti di sovranità. Quale dovrebbe essere la loro residenza? La loro nazionalità?

La bandiera che fa a caso loro è quella belga, la meno onerosa in termini burocratici e legislativi. Si spostano costantemente e prestano i loro servizi, il loro mestiere, dove capita e per chi capita, spesso attuano un’economia dello scambio e del dono, all’occorrenza piccoli contrabbandi, facendo la ”cresta” su alcuni prodotti seguendo la geografia della domanda/offerta. Sono persone che si fidano di se stesse, spesso dopo aver sperimentato i loro limiti, che apprendono continuamente a risolvere in prima persona i problemi.

Autosufficienza è il loro concetto chiave. Autosufficienza non vuol dire essere in grado di fare tutto da soli, in un delirio solipsistico, ma sapersi fare aiutare, saper stringere relazioni. Vuol dire essere coscienti che un certificato, un titolo, una posizione gerarchica, un’abile strategia di marketing, non garantiscono la tua reale competenza, la tua autorità in materia, ma che quelle si conquistano sul campo. Così, ancora una volta la fiducia si costruisce in un dialogo costante, di parole ma soprattutto di atti, attraverso relazioni genuine che vanno al di là dei ruoli e delle posizioni ricoperti. E quindi spesso non fidarsi è meglio.

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