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Occupy Sandy: il riciclo al tempo dei network

Ho soppesato per un secondo la parola “riciclo” prima di utilizzarla nel titolo. Devo confessare che anche se mi considero piuttosto ecologista la mia mente continua a portarsi dietro un’associazione negativa della parola “riciclare”. Riciclato è qualcosa di non originale, non innovativo, non nuovo. Ma così com’è arrivata, l’associazione negativa è stata subito ricacciata indietro. Riciclare è etico, bello e funziona. E si può fare anche con i network.

Vi ricorderete senz’altro dell’esperienza Occupy Wall Street, “We are the 99%”. Ne avevo scritto su questo blog circa un anno fa e la vicenda ha avuto ampio spazio nell’opinione pubblica mondiale, come esempio di un’efficace e ampia forma di mobilitazione sociale e politica. L’entusiasmo e la resistenza al rigido inverno newyorkchese sono scemati tra gli occupanti dello Zuccotti Park (e del resto degli Stati Uniti) che avevano dato vita a questa prima spettacolare protesta, ma l’esperienza è stata capitalizzata con la creazione di un network permanente, interoccupy.net .

Il network cerca di favorire la comunicazione tra individui, gruppi di lavoro e le Assemblee Generali locali, che sono la spina dorsale del movimento. Le Assemblee Generali dichiarano di “utilizzare la democrazia diretta e i processi decisionali di tipo orizzontale al servizio degli interessi del 99%”. Quello che si è spontaneamente creato e sviluppato a partire dai giorni della protesta ha preso la forma stabile di un network di gruppi di lavoro impegnati su diversi fronti. Esiste un network, ora usiamolo! Il Coordinamento è stato il bisogno intorno a cui è nato IO:

InterOccupy (IO) is an interactive space for activists looking to organize for global and local social change. By October 2011, the Occupy Movement in the US was in full swing with hundreds of encampments spread across vast distances. The need for a robust communication network became apparent when camps had trouble contacting one another in order to share important information about the suppression of the movement.

L’utilità della tesorizzazione di un’esperienza di network orizzontale si vede nelle azioni di aiuto e volontariato nelle zone martoriate dall’uragano Sandy: intere porzioni di città ancora senza elettricità, attività commerciali annientate dall’ingenza dei danni, mancanza di generi di prima necessità. In questo scenario la risposta delle autorità è presente, ma come spesso succede è lenta e inefficace a coprire interamente i bisogni di una comunità in seria difficoltà. Occupy Sandy è una delle entità coinvolte nel sostegno alle comunità colpite dal dramma dell’uragano, e a quanto pare ci riesce molto bene grazie all’efficacia del coordinamento orizzontale sviluppato nei mesi della protesta.

La scorsa domenica ho partecipato con la mia ragazza ad un’azione di volontariato per Occupy Sandy. Avere un’auto con carburante in questi giorni a New York City è da considerarsi un privilegio e Kate ha pensato che potesse essere di grande utilità. Il centro di Occupy Sandy a cui ci siamo rivolti per offrire questo prezioso aiuto è situato in una chiesa in Brooklyn. L’edificio ospita un centro di raccolta e coordinamento degli aiuti che vengono poi smistati nelle aree disastrate. Questi centri sono situati in differenti zone della città per una maggiore capacità di raccolta delle donazioni. Nel modello dei network orizzontali non esiste un Centro sovraordinato, ma tanti nodi che svolgono una funzione territoriale indipendente ma coordinata e che permettono di organizzare i diversi aiuti individuali. C’è chi dona del cibo e beni di prima necessità, chi tempo e forza lavoro, chi vuole cucinare, chi ha un’automobile, e così via.

Il centro di raccolta aiuti brulicava di gente riunitasi con le più svariate qualifiche e disponibilità, una catena umana andava dal marciapiede fino all’interno della chiesa passandosi le provviste, persone andavano e venivano dalla cucina o dai banchi di distribuzione, ragazzini entusiasti cercavano di rendersi utili. Appena scoperto che avevamo un’auto e desideravamo condividerla siamo stati registrati attraverso i computer e ci è stata affidata la missione di consegnare due assistenti sociali e una serie specifica di provviste per una zona di Brooklyn chiamata Red Hook. I coordinatori degli aiuti sembravano avere una chiara idee di cosa servisse e dove, in modo da canalizzare e distribuire efficacemente le risorse e le provviste. Insieme ai due assistenti sociali abbiamo consegnato candele, torce elettriche, medicine, dentrifrici e spazzolini, pannolini e prodotti per l’igiene infantile. A missione compiuta abbiamo riportato telefonicamente al centro di coordinamento l’avvenuta consegna.

Il modello e le relazioni createsi nell’esperienza di Occupy Wall Street sembrano aver portato ad un network coordinato in grado di rispondere a diversi scopi ed esigenze. Esiste senz’altro una vision di fondo, legata a quanto sperimentato nel corso della mobilitazione politica dell’autunno scorso, ma il modello di processo decisionale orizzontale e la democrazia diretta sembrano oggi rispondere a diverse esigenze che gli attivisti di volta in volta mettono in campo. La Rete e i siti web servono come centro di coordinamento e informazione ma sono poi le persone reali che spendono tempo e energie per portare a termine le differenti missioni. Gli aiuti alle popolazioni colpite da Sandy offrono un’arena di confronto tra modelli gerarchici e modelli orizzontali. Questi ultimi si stanno dimostrando efficaci nella risposta ad una situazione di crisi grazie alla rapidità delle azioni e alla flessibilità organizzativa garantite da una collaudata funzione di coordinamento. Un modello da imitare e “riciclare”.

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Sei facili passi per scongiurare il collasso della civiltà

[saltate direttamente al minuto 4:40, per questo lungo ma interessante video]

Sembra impossibile immaginare che tutto quello che ci circonda, gli edifici, la conoscenza, la nostra immensa cultura possa essere spazzato via. Ma questo è esattamente quello che pensavano i Greci, i Romani, gli Atzechi e tutte le civiltà che si sono susseguite nel corso della storia dell’umanità.

David Eagleman è un neuroscienziato, ma la sua brillante carriera accademica non limita i suoi campi di indagine ed interesse. Come divulgatore scientifico e autore letterario ha pubblicato diversi libri e in Why The Net Matters si spinge ad indagare come la Rete possa essere utile ad evitarci un collasso di civiltà.

Il tema è interessante e le lezioni da lui tenute in diversi momenti su questo tema sono  brillanti e popolari online. La perplessità che mi è sorta riguardo alle sue teorie è se possiamo davvero parlare di Civiltà nell’ultimo secolo e ben prima dell’avvento di internet. Di quale stiamo parlando? Di quella Americana? Occidentale? Araba? Il processo di globalizzazione è ben più vecchio della creazione e distribuzione della Rete, e la collaborazione tra nazioni e i mezzi di trasporto hanno permesso per esempio di salvare la civiltà ebrea (non so se il termine è corretto ma si applica a questo contesto) dalla scomparsa, sebbene le perdite siano state comunque ingenti. E in quel caso alla Rete ancora nessuno ci pensava.

Eagleman è abile divulgatore e commerciante di sapere e sa prendere una paura comune come il “Collasso della Civiltà” per parlare di temi che altri prima di lui avevano ben trattato e divulgato. Anche se la Rete non è necessariamente ciò che ci salverà da un collasso è indubbio che può aiutare moltissimo, forse non soltanto a salvare noi stessi ma anche un pò l’economia e chissà, il pianeta.

Qui i sei punti che Eagleman individua e discute:

1. “Non tossirsi addoso” Microbi e virus detengono il record per esseri umani (e non solo) uccisi nel corso della Storia. Sono responsabili in massima parte della scomparsa di alcune Civiltà, come per esempio quelle sudamericane. Con la Rete oggi siamo attrezzati ad un intervento più tempestivo e con lo sviluppo del telelavoro e della telemedicina possiamo starcene a casa contenendo la diffusione delle epidemie in luoghi di lavoro e ospedali.

2. “Non perdere le cose” Il tempo di disastri come l’incendio della biblioteca di Alessandria è molto lontano e con la digitalizzazione delle informazioni, la ridondanza dello stoccaggio e l’accessibilità  sarà sempre più difficile “perdere conoscenza”, oltre al vantaggioso risparmio di spazio e “alberi”. Nel corso della storia molte scoperte come la vaccinazione sono state riscoperte in tempi e luoghi differenti. Da oggi questo sarà evitato grazie al principio “distribute don’t reinvent”

3. “Dillo a tutti più in fretta” Ovvero oggi con la rete possiamo muoverci più in fretta dello Tsunami. La civiltà minoica perì per mancanza di un sistema di allarme tsunami che ora abbiamo. Dopo il disastro del Sud Est asiatico è partita l’implementazione di sistemi di rilevamento e comunicazione di imminenti pericoli. Innumerevoli haitiani nel recente terremoto sono stati salvati da ushahidi.com, che aggrega le comunicazioni via cellulare sul campo in tempo reale. Non soltanto la comunicazione, ma l’assenza totale di comunicazione, ovvero un “buco” nel normale flusso di informazioni proveniente da un’area può dare l’allarme di un possibile disastro o comunque di una preoccupante anomalia.

4. “Mitiga la tirannia” Il crollo dell’Urss è stato reso inevitabile dal controllo dei media da parte dello Stato. La mancanza di libertà di informazione ha portato a un errore  come il Lysenkoismo, che ha promosso per amicizie politiche una teoria erronea della coltivazione del grano su 13 fusi orari, creando milioni di affamati e l’impoverimento del suolo. L’impatto del web nella politica è un nuovo e evidente vantaggio che sta contribuendo ad una democratizzazione di molti. La Cina e Cuba stanno compiendo una grande lavoro di censura sulla Rete, e anche se la decisione di Google di non offrire un servizio censurato agli utenti cinesi non cambierà la politica Cinese, è un messaggio di boicottaggio importante (e una grande pubblicità).

5. “Metti insieme più cervelli a risolvere i problemi” Imbottigliare il  capitale umano mette a repentaglio il futuro. Rendere invece la conocenza aperta al pubblico e condividere i temi di ricerca aiuta a creare un network collaborativo di menti aiutando a contenere i costi della ricerca scientifica. I corsi aperti online permettono di l’istruzione superiore accessibile a tutti, abbattendo alcuni costi dell’istruzione. Il Crowd Problem solving è in fase di avanzata di sperimentazione in siti come PatientsLikeMe, che oltre a rispondere al bisogno di appartenenza e social networking degli ipocondriaci contribuisce alla diffusione dell’informazione sui trattamenti delle malattie. Foldit (folding delle proteine​​) permette a tutti di contribuire allo lungo e costoso studio delle proteine attraverso un gioco online. Cstart.org è un’agenzia non-governativa e no profit per l’esplorazione dello spazio. Forse il prossimo passo è il Social Research.

6. “Non consumare troppa energia” Il web contro la dipendenza da Petrolio? In questa parte Eagleman ci racconti i vantaggi in termini di risparmio energetico che l’e-commerce e l’email stanno apportando. Pochi furgoni invece di molte auto in giro per negozi. Ancora una volta il telelavoro sembra essere una chiave futura, perchè a oggi questo fenomeno ci appare invece ancora da sviluppare.

Sicuramente questi sono importanti fattori che permetteranno alla civiltà, quale essa sia, di sopravvivere. L’interrogativo sembra essere invece l’opposto: cosa succederebbe se fosse la Rete a collassare? Alcuni disastri potebbero derivare dal collasso stesso come ad esempio il controllo dei satelliti e quindi il controllo remoto di moltissimi sistemi e mezzi di trasporto, nonchè delle comunicazioni, il blocco delle transazioni con susseguente breakdown economico e così via. Ma se l’uomo è già sopravvissuto a malattie, acciaio e armi è invece inesperto in fenomeni come il Collasso di Internet. Se ciò dovesse accadere confido che qualche ricercatore e divulgatore scientifico, col sempre saggio “senno di poi”, sappia ricavarne utili consigli e per la sopravvivenza futura e venderci sopra qualche libro in più.

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Rivoluzione dura

Quando abbiamo cominciato a scrivere questo blog si parlava chiaramente già di P2P. Eravamo convintissimi di quanto sostenesse Bauwens, ovvero che la Peer production non fosse soltanto una tecnica produttiva per lo sviluppo di software e tecnologia quanto invece che ci trovassimo di fronte a un nuovo e rivoluzionario paradigma sociale, a un nuovo modo di produzione. L’Open Source come modello di business allargato potenzialmente a tutti i settori.

Eppure questa convinzione non riusciva per me ancora a trovare un riscontro pratico, in termini di implicazioni nella vita quotidiana, al di là che esistesse un software libero e gratuito pronto a soddisfare le esigenze dell’utenza generica. Non riuscivo nella mia mente e nelle esperienze di tutti i giorni a fare il salto, dal software all’hardware. Cercavo quell’esempio che mi facesse capire come la gente potesse davvero cooperare per la produzione di oggetti fisici (hardware) strumenti che concretamente cambiano la vita quotidiana. Poi ho visto questo video:

E mi è piaciuto. E l’idea piace a molti visto chele fiere del movimento dei Makers si stanno espandendo un pò in tutto il mondo. DIY (Do It Yourself) è uno slogan che ha portato allo sviluppo e alla distribuzione delle stampanti 3D, per creare  qualsiasi oggetto plastico a partire da un disegno grafico. Una piccola azienda grazie a queste nuove macchine sta offrendo la possibilità al cliente (negozi di giocattoli ma anche gente comune) di disegnare e produrre giocattoli a richiesta.

Un’altra rivoluzionario scoperta ha un nome e un padre tutti italiani. Si chiama Arduino. Arduino è una piattaforma open-source per applicazioni elettroniche creata per agevolare il lavoro di artisti, designer, hobbisti, e chiunque sia interessato a creare oggetti o ambienti interattivi. Arduino può percepire l’ambiente, riceve l’input da una varietà di sensori e può influenzare l’ambiente circostante controllando luci, motori ed altri attuatori. Con la scheda si possono creare oggetti interattivi senza bisogno di un grosso investimento dal momento che le schede possono essere costruite a mano o acquistate già assemblate (al prezzo di 20$) e il software può essere scaricato gratuitamente. I disegni di riferimento dell’hardware (file CAD) sono disponibili sotto una licenza open-source, ma liberi di essere adattatati alle esigenze del costruttore.

Prima le macchine manipolavano bit, ora sono passate agli atomi. Dopo che Microsoft e Apple (ma ricordiamoci anche della Olivetti) hanno lanciato la rivoluzione digitale da un garage, cosa ci possiamo aspettare da un esercito di anonimi costruttori che ha iniziato a giocare con le nuove tecnologie per costruire oggetti fisici?

Industrial productivity can be achieved on a small scale?

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Lavorare di meno grazie alle tecnologie del web (!?)

Da qualche decennio, da quando cioè i computer hanno preso prepotentemente il controllo delle transazioni informative all’interno delle organizzazioni, tutti avrebbero pensato a un progressiva diminuzione delle ore lavorative, magari senza decurtazione nel salario, visto che la produttività in teoria non ne avrebbe risentito. Un’equazione semplice: fintanto che si riesce ad aumentare la produzione, finchè si vende, la tecnologia non porta disoccupazione, la forza lavoro rimane costante e quello che si allarga sono i volumi di produzione, i mercati. Peccato però che i mercati non possano in generale espandersi all’infinito, e qualche frattura nel sistema finanziario ci ha anche fatto capire che le ottiche di investimento non sono più sufficienti al grado di miopia di oggi.

Perchè oggi con sistemi informativi da brivido l’impiegato medio continua a fare i turni di 8 ore? Come quantifichiamo oggi la produttività rispetto alle mansioni, quindi l’orario salariato? Stare in ufficio otto ore mi è sempre sembrata una tortura. Forse ero io ad essere troppo rapido o troppo sbrigativo e superficiale nel lavoro che svolgevo. Ricordo alcuni casi e cioè in concomitanza di flussi lavorativi eccezionali che in alcuni settori avvengono stagionalmente o comunque a singhiozzo dove i carichi di lavoro mi sembravano potersi e doversi spingere a occupare tutta la mia giornata, anche per più di otto. Ma questo mai un anno intero, a meno che io abbia sempre e solo frequentato organizzazioni pigre. Pensare che organizzazioni di anche 80 persone necessitino il loro impiego ininterrotto per otto ore tutti i giorni mi sembra indice di inefficienza. Gli scandali dei dipendenti pubblici di Arezzo che si assentano impunemente a fare le loro commissioni (i famosi “porci comodi”) è indicativo: ma in fondo in ufficio, cosa avevano da fare?

La rivoluzione tecnologica ha portato nel corso dei secoli ad una progressiva diminuzione delle ore annue dedicate al lavoro ( dalle 3000 ore l’anno di inizio secolo alle 1700-1800 ore di lavoro di oggi). Siamo forse arrivati al minimo storico? Perchè non si può ulteriormente scendere? E perchè costringere in cattività lavoratori anche se inoccupati parte della giornata? Tanto poi lo sappiamo che passano il tempo sui social network o alle macchinette del caffè.

Nelle ultime settimane ho fatto alcuni colloqui di lavoro da casa via Skype e un amico mi faceva notare come un candidato (ma anche un esaminatore) potesse, sotto il suo mezzo busto incravattato e ingiacchettato, stare in mutande e con i piedi in ammollo nel pediluvio continuando a mantenere un’aura di rispettabilità.

Una plausibile soluzione agli enigmi del binomio vita-lavoro sembra essere offerta dal mai decollato telelavoro o in genere dalla non-assenza creata dalle tecnologie connettive. Se possiamo lavorare ovunque e dovunque (non per tutti, ma per molti) allora non smettiamo mai di lavorare, siamo sempre on e mai off. Il problema dell’orario di lavoro passa in secondo piano dato che possiamo lavorare a tutte le ore, ci viene chiesto di risolvere problemi alle 10 di sera, o al cinema, nella pausa tra primo e secondo tempo. E in più nel mio “tempo libero” intrattengo relazioni informali tramite i social network che a parte per qualche grigio e vetusto dirigente (chi in Italia normalmente detiene il potere) producono benefici effetti di ritorno per l’azienda stessa in termini relazionali, di problem solving e di diffusione delle informazioni. Il grigio e vetusto dirigente però ha il costante terrore dell’autonomia, se chi lavora non visto da qualche altra parte faccia delle pause più lunghe del necessario, se rispetta i tempi convenuti, se esegue correttamente il compito affidatogli. E così moltiplica i controlli, o meglio continua a utilizzare quelli in atto da tempo, le catene e i lucchetti dei rematori di galere.

Il problema è spinoso, lo riconosco c’è ancora in giro chi non può fare a meno di sentirsi un Padre controllore, invece che un Peer, un fratello con cui condividere le missioni e su cui fare complice affidamento.

Quindi, tuona la voce del Padre, in questa Casa come si fa da sempre si entra alle 9 e si esce alle 18, siamo d’accordo!?

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Competere è bello

Il mio intervento sul tema della Social Enterprise (o enterprise 2.0) presso la corporate university di un cliente,  mi ha consentito di portare avanti alcune riflessioni che voglio condividere.

Vengo teorizzando nell’ultimo periodo nei blog in cui scrivo, in particolare qui e qui, la rilevanza del codice dei fratelli nella costruzione delle nuove culture P2P. Devo alla lezione di Giancarlo Trentini e di Massimo Bellotto, l’adozione dei codici affettivi di Fornari come chiave di lettura simbolica attorno alla quale si sviluppano le culture organizzative.  L’adozione di modelli up down, che fanno riferimento a capi che gestiscono collaboratori adottando la cultura del comando e controllo, implicitamente è inscritta in un paradigma che legge la realtà attraverso relazioni verticali. Relazioni analoghe a quelle che si vivono nel contesto famigliare in cui come figli ci relazioniamo a nostro padre (che ci chiede performance e rispetto delle regole) oppure a nostra madre (che ci cura e ci dona affetto senza condizioni).

Insomma è come se avessimo costruito sistemi organizzativi in cui il primato spetta a questi codici affettivi ed in cui l’altro codice affettivo, quello dei fratelli ha un ruolo inesistente (nelle burocrazie) oppure minore (nelle aziende tecnocratico manageriali).

La tesi che sostengo è che la rivoluzione P2P apre uno scenario in cui il codice dei fratelli acquisisce un rilevo equivalente a quello paterno e materno.

Lo studio del codice dei fratelli rivela che esso si articola in due dimensioni: una distruttiva ed una costruttiva. E’ evidente che tra fratelli vi sono sentimenti di gelosia e di invidia generati dalla competizione per ottenere l’amore dei genitori. Ho due figlie piccole e per me è assolutamente evidente. La più grande manifesta a tratti sentimenti di profonda insofferenza verso la sorellina, specie nei momenti in cui io e mia moglie ci prendiamo cura della piccola.

L’osservazione di mia figlia mi mostra anche la componente generatrice della fratria. I fratelli sono complici e sodali, imparano a divertirsi insieme se l’età rende possibile fare gli stessi giochi. Questo aspetto è molto interessante. Mi considero un formatore soprattutto, ed è molto interessante vedere nelle aule come non appena si propone un gioco le persone si attivano e “competono”. Lasciandosi andare emergono spesso, anzi sempre i meccanismi competitivi a somma zero, caratterizzati da carico (adrenalina da competizione) e scarico energetico (euforia per la vittoria, oppure depressione per la sconfitta) così come Reich ce li ha insegnati. Sistematicamente arriva il “bravo formatore” che dà una tirata d’orecchie agli allievi e li riporta al dovere di un approccio più razionale e consapevole della teoria e dell’approccio di turno. Gli oltre 200 dilemmi del prigioniero che ho condotto (in almeno 10 varianti) e l’osservazione che nel 95% dei casi prevalgono le dinamiche competitive mi induce a pensare che dietro debba esserci un motivo profondo. So anche che da qualche parte ci sono studi che dimostrano che la cooperazione è la dimensione “naturale” dell’uomo, ma per il momento non voglio considerarli. Lavoro su questa ipotesi e sostengo che la competizione (tra fratelli) è fonte di energia psichica. La competizione tra fratelli sviluppa energia psichica e quindi “tira fuori dal nido”. Il superamento del caldo abbraccio della famiglia è possibile perché la fratria costringe a superare i propri limiti e a crescere. Allora è evidente che la fratria è una fonte di apprendimento. In questa learning era, in cui lo sviluppo è possibile solo se si generano positive spirali di sviluppo della conoscenza e dell’innovazione acquisisce peso il codice dei fratelli.

Dunque nell’età della globalizzazione si generano le condizioni per l’affermazione del codice affettivo in cui l’apprendimento, la collaborazione, l’iniziativa dal basso sono maggiormente valorizzati.

Concludo con la meravigliosa immagine proposta da una partecipante nel finale del corso. Facendo un’analogia con le bellissime sculture di Modigliani esposte al Mart e che abbiamo visto mercoledì 23 marzo, la signora ci ha detto: la leadership del futuro è femmina. Da un lato rotonda ed accogliente (e orientata alla forma pura NdA), dall’altro ruvida, tagliata con percorsi netti, non finita.

Un’intuizione felice che disegna un itinerario per capire come cambia la leadership nei nuovi scenari. Ne riparleremo prossimamente.

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Fratelli d’Italia

Se parliamo di organizzazioni, senza leader, o meglio senza capi, allora bisogna chiedersi che fine fanno i capi. Poiché è facile immaginare che organizzare risorse significa fare i conti con il potere, organizzazione e management sono cose procedono di pari passo. Ma noi sosteniamo in queste pagine che le strade possono divergere, dunque il problema è dove vanno a finire i capi, quelli che c’erano prima, all’inizio della storia.

Mi sono posto questa domanda perché sto leggendo il bel volume di Kaes Il complesso fraterno edito presso Borla (2010). Sono arrivato a questo volume per un’intuizione che riguarda il legame tra i codici affettivi e le organizzazioni 2.0. Mi sembra che se le organizzazioni tradizionali del tipo comando e controllo sono caratterizzate dai codici paterno e materno, lo stesso non si possa dire delle nuove organizzazioni. Sono paterne le organizzazioni in cui prevale la performance o il rispetto delle regole. Materne quelle in cui prevale la cura e la solidarietà. Mi sono confrontato con il mio amico Massimo Bellotto autore nel 1991 insieme a Giancarlo Trentini del bel modello sulle culture organizzative da cui ho tratto questa concezione. Concordiamo nel ritenere che il nuovo scenario preveda l’avvento di un nuovo codice affettivo: quello fraterno. Stiamo cioè assistendo allo sviluppo in questa nuova fase di modelli relazionali non più ispirati ai codici affettivi propri del triangolo edipico (paterno e materno) ed al complesso corrispondente, per usare un linguaggio psicoanalitico.  Le nuove organizzazioni vedono il prevalere di un altro complesso la cui natura è ancora oggetto di studio: il complesso fraterno.

Nella lettura che ne dà Kaes il complesso fraterno è un organizzatore psichico inconscio del legame fraterno. Il legame fraterno è il rapporto affettivo che si stabilisce con i pari, nei gruppi, all’insegna della cooperazione, ma anche della rivalità, del conflitto e della solidarietà.  La tesi ardita dell’autore è che tali relazioni, che noi conosciamo o che abbiamo sperimentato, derivino da un complesso (fraterno) di importanza analoga a quello di altri complessi oggetto dell’indagine psicoanalitica: quello edipico sopra tutti. In altre parole questo significa che il nostro abitare le nuove organizzazioni P2P ha a che fare con il rapporto che ognuno di noi ha con i fratelli, reali o immaginari, che abbiamo interiorizzato. Intrusione, rivalità, invidia, gelosia, desiderio, sfida sono le dimensione che la fratria ci impone di considerare.

Un tema importante è anche l’elaborazione della morte dei genitori, che rappresenta la dimensione di confine tra i vecchi ed i nuovi modelli organizzatori del legame in una famiglia. L’analogia con l’impresa è del tutto necessaria. Introdurre i temi P2P in un’azienda significa fare i conti con la scomparsa delle figure paterne o materne. Padri e madri che potrebbero non aver nessuna voglia di cedere il passo, e dunque importare nella scena psichica fantasie di persecuzione e vendetta. Questo è il motivo per cui le community di certe aziende repressive non decollano, nonostante le buone pratiche di coinvolgimento di gruppi di redattori, autocandidati come promotori della community stessa. Questo può essere uno dei motivi per cui si teme di esprimere il proprio punto di vista, concependo una relazione non solo gerarchica, verso padri e madri che non ci stanno a farsi da parte. Questo è il motivo dell’energia esorbitante che ho rilevato personalmente nelle poche imprese autenticamente 2.0 in Italia. Casi isolati che sono possibili perché i capi si pensano, usando il nostro linguaggio, più come fratelli maggiori, che come padri (o patrigni). Pronti a favorire l’espressione, la scoperta, il desiderio, il divertimento. Pronti a  fare i conti, con l’invidia, la gelosia, la rivalità che la relazione tra fratelli comporta.

Allora mi viene da dire “svegliamoci” come diceva Benigni nella serata sanremese. Libertà, uguaglianza e fraternità nel segno di una rivoluzione di pari.

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Anonymous in difesa di Wikileaks: mobilitazione politica o terrorismo hacker?

Anonymous: il gruppo autoproclamatosi difensore di Wikileaks. La maggior parte dei membri non ha nessuna influenza riguardo la direzione del gruppo o la sua strategia. “Il nostro progetto non ha una struttura piramidale, ma solo ruoli diversi. La definizione della leadership e organizzazione dei vari progetti varia molto” ha spiegato un membro di lunga data “è tutto molto caotico, ma noi comunichiamo e cooperiamo uno con l’altro”.

Leakspin: il nome in codice della campagna lanciata da Anonymous in favore di Wikileaks.

Operation Payback: il 9 dicembre il collettivo Anonymous attacca i siti di Mastercard, Paypal, Visa. Un esperto sostiene che per l’attacco del sito di Visa fossero necessarie almeno 2000 utenti che attaccassero in contemporanea il sito.

DDoS (Distributed Denial of Service): la strategia utilizzata per mettere k.o. i siti. In pratica è un bombardamento da parte di molti utenti al sito bersaglio col fine di bloccare i servizi per gli utenti che lo necessitano in quel momento.

U.S.A. : il bersaglio della protesta, da quando Washington ha citato in giudizio Wikileaks e si sospetta abbia fatto pressioni sulle società attaccate per chiudere i loro servizi a Wikileaks.

Comunicazione: Gabriella Coleman, una professoressa dell’università di New York che ha studiato il gruppo, ha stimato che fino a mille persone partecipano ad Anonymous, “adattando i propri computer per co-ordinare gli attacchi in rete”. I leader del gruppo usano la tecnologia IRC (Internet Relay Chat), che permette ai gruppi di comunicare.

Siamo di fronte a una nuova era della mobilitazione politica? Com’è possibile oggi riunire e coordinare più di mille persone verso un obiettivo senza strutture gerarchiche e con il massimo anonimato?

Anonymous è un esempio di gruppo P2P in grado di raggiungere obiettivi complessi senza necessità di una struttura gerarchica che supervisioni e coordini. Di certo il movente, l’indignazione nei confronti delle restrizioni imposte a Wikileaks, sono un forte catalizzatore di energie e sicuramente la comunità che appoggia wikileaks si è sentita in dovere di collaborare. Una forte motivazione e le nuove teconologie rendono possibili forme organizzative fino ad oggi ritenute impossibili.

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Una Chiesa senza preti? Succede in Belgio…

Consiglio la lettura di questo interessante articolo, ci si può autorganizzare anche in Chiesa!

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Ultime notizie: non esistono “macchine a pensare”!

Che fa un guru? Semina, dà visioni, spunti. E in effetti gli spunti sono stati tanti a www.meetthemediaguru.org, ma una cosa in particolare mi ha colpito: lo spazio dedicato alle domande a Derrick de Kerckhove è stato caratterizzato da una atmosfera allarmata. Esempi: “Questa nuova rete non si rivelerà un casino, una nuova Babele in cui sarà impossibile intendersi?”; ed anche “Ad una intelligenza collettiva corrisponderà una stupidità collettiva?” E così via. La cosa che ancor più mi incuriosisce è che questo genere di domande siano venute da una platea di “addetti ai lavori”, non di “persone della strada” (che conoscono il 2.0 attraverso notizie tv del tipo: facebook = brigate terroristiche). Forse tali quesiti sono emersi per controbilanciare lo sfrenato slancio ottimista di de Kerckhove, ma forse sono anche sintomatici di come in Italia si viva ora l’argomento “futuro”.

Citando un italiano anomalo, ma che ben sapeva sentire e predire l’Italia

Noi prestavamo alle macchine
una malizia che invece è nostra.

(Ennio Flaiano, La valigia delle Indie)

Forse ne prestiamo ancor più oggi, che le macchine non solo eseguono ma aiutano a organizzare il pensiero? Una malizia per temi tabù quali la conoscenza, il controllo, il potere.

Che cosa sono i social media? Che ruolo giocano nella produzione del valore? In cosa sono diversi dalle “macchine per fare”? Sono cose che stiamo scoprendo ora, chi allarmandosi, chi esultando. Di certo c’è che sta emergendo una nuova relazione tra tecnologia e conoscenza. Adottare il 2.0 come piattaforma di lavoro non è un mero aggiornamento tecnologico, ma implica – ed alimenta – un cambio radicale nella cultura organizzativa. La differenza tra le soluzioni IT di vecchia generazione e quelle attuali sta essenzialmente nel fatto che le prime non consentivano libero accesso al patrimonio di conoscenze di un’organizzazione: se il Web 1.0 era semplice catalogo di contenuti consultabile dal navigatore, il Web 2.0 è un ambiente dove le persone partecipano, dialogano, contribuiscono attivamente alla creazione di conoscenza: il navigatore diventa autore.

Tre osservazioni sul rapporto tra tecnologia e sapere mi aiutano a inquadrare questa rivoluzione delle tecnologie sociali: il paradigma digitale (Ong, 1986), il costruzionismo sociale (Williams, 1974, vs. determinismo tecnologico di McLuhan) e le meta-tecnologie (Wright, 2000)

– per il paradigma digitale, la trasformazione del testo scritto in informazione digitale porta ai limiti estremi due proprietà della scrittura: la modificabilità e la trasportabilità. Il poter modificare e trasferire infinite volte un contenuto elettronico senza limitazioni sposta il focus della produzione di conoscenza dal prodotto al processo;

– per il costruzionismo sociale l’elemento critico che caratterizza un medium è come e perché è utilizzato: l’essere medium è un uso particolare di una tecnologia (dunque il medium ha un’origine psico-sociale: nasce dallo sviluppo e dalla riconfigurazione delle risorse di una cultura al fine di raggiungere un obiettivo definito socialmente);

– Wright definisce “meta-tecnologie” gli algoritmi sociali che governano gli usi delle tecnologie. Sono le meta tecnologie, e non le tecnologie, a modificare i comportamenti e l’organizzazione sociale. Questo perché una tecnologia prende una forma sociale solo quando è utilizzata, producendo cambiamenti nel sistema sociale stesso. A caratterizzare una meta-tecnologia sono tre fattori: I) un evento di rottura che renda possibile utilizzare una tecnologia in nuovo modo attraverso una nuova pratica (in questo caso l’evento è il network di computer e la nuova pratica è il social networking: “un computer senza una rete è poco più di un fermacarte” Paul Saffo);  II) la possibilità di sfruttare la nuova pratica per risolvere in modo più efficace un problema (l’efficacia aumenta nella collaborazione in network); III) la condivisione della conoscenza della nuova pratica all’interno di un contesto sociale (l’organizzazione come insieme organico di communities dialoganti).

Questo quadro mi è utile per descrivere il rapporto dinamico tra tecnologia sociale, collaborazione e conoscenza: i social media non “catturano” la conoscenza entro una rigida tassonomia, ma supportano e implementano il processo di co-costruzione della conoscenza, rendendo esplicite le pratiche di lavoro esistenti e “aumentandole” ad un ambiente collaborativo peer.

Chiamo il paradigma culturale che accoglie questo nuovo rapporto dialogico tecnologia-conoscenza paradigma di collaborazione meta-tecnologica. È solo un’etichetta, certo, ma desidero esprima la fenomenologia meta-tecnologica (psicosociale e tecnologica allo stesso tempo) del Web 2.0.
Il transito in atto è molto più che tecnico:

the shift is not just in the new Web 2.0 technologies. It’s in the way that increasingly widespread access to these tools is driving a fundamental change in how groups are formed and work get done. Wikis and other social media are engendering new, networked ways of behaving – ways of working wikily – that are characterized  by principles of openness, transparency, decentralized decision-making, and distributed action (Kasper, Scearce, 2008).

Un transito che ha effetto sulla coscienza di sé entro il processo creativo: il Web 2.0 è allo stesso tempo strumento e oggetto della relazione con l’altro; sul Web 2.0 la coscienza emerge, come processo sociale, dalla rete di relazioni e di pratiche che intessiamo con gli altri, non risiede esclusivamente “nella testa”. Quando agiamo in Rete, sperimentiamo un processo di “apertura” di noi stessi agli altri e, attraverso questa, una apertura alla possibilità di incidere sulla realtà in una maniera “aumentata” dalla rete viva di relazioni.

Condividere uno spazio digitale fluido continuamente ri-strutturabile ha, inoltre, effetti sull’idea stessa di “attività intelligente”: tradizionalmente il concetto di intelligenza è associato a un qualcosa di intimo, soggettivo, personale e personificato. Le pratiche collaborative vissute in Rete estendono la capacità intellettiva oltre la sfera intima, oltre la persona, collocandola in un orizzonte di significato più ampio, inter-soggettivo: la conoscenza è creata tra le menti e non (solo) all’interno della mente. Nelle parole di de Kerckhove “siamo tutti nodi nel grande ipertesto”. Noi siamo i nodi, non le “macchine”.

Il ruolo dei social software non consiste nel costruire una “intelligenza artificiale” che vada sostituendo la mente umana, ma nel fornire una piattaforma per la costruzione di collettivi intelligenti in cui le possibilità di ciascuno possano svilupparsi e ampliarsi reciprocamente. L’intelligenza che sta evolvendo sul Web è dunque la possibilità, per la comunità umana, di evolvere verso una capacità superiore di pensiero, di risoluzione di problemi, di innovazione.

I social software forniscono una piattaforma – ed alimentano – questo nuovo vissuto di gruppalità, poiché essi facilitano la comunicazione, la negoziazione, la responsabilizzazione – in una parola, l’interdipendenza.

Detta così sembra una prospettiva idilliaca; allora perché quelle domande cariche di angoscia? La Rete sta trasformando l’epistemologia organizzativa da processo individuale a processo plurale, sta cioè definendo la conoscenza come impresa collettiva che si rende possibile attraverso relazioni sociali di collaborazione, piuttosto che di autorità e controllo. Non è idilliaco, né indolore, transitare attraverso setting di potere tanto diversi dagli usuali.
Ma sta nella conversazione con i pari l’attività creativa del futuro. Non sta nelle menti di singole persone “potenti”. E men che meno sta nelle macchine.

Che avesse ragione Flaiano – attribuiamo malizie nostre alle macchine? Non esistono “macchine a pensare” il futuro per noi. Per poter ragionare di intelligenza collettiva, siamo chiamati a interrogarci sul coraggio personale: agire anziché essere agiti. Abbiamo il coraggio di (con)dividere potere per moltiplicare intelligenza?

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Il 2.0 al lavoro

La nuova Rete – fatta di social software, comunità, partecipazione paritaria – è un luogo di interazione che coltiva intelligenza collettiva e amplia le possibilità collaborative di gestione e produzione della conoscenza. Gli esempi, sotto gli occhi di tutti e ormai collaudati, sono numerosi: Wikipedia, Twitter, i sistemi operativi open… Un nuovo paradigma di peer collaboration sta emergendo in campi creativi eterogenei dando vita a entità produttive aperte, trasparenti, dai processi decisionali decentralizzati e realmente diffusi.

Ma la collaborazione tra pari è possibile, e auspicabile, anche al di fuori della Rete, del virtuale, entro le dinamiche concrete di una organizzazione? Insomma il 2.0 funziona in azienda? Oppure è una ennesima etichetta da appiccicare a forme di bottom-up, di gerarchia da scalare dal basso.

Ho dedicato gli ultimi due anni all’approfondimento delle tecnologie e delle pratiche peer applicate in ambiti organizzativi. Ho lavorato ad una tesi specialistica (“Enterprise 2.0: nuove forme organizzative nell’era dei social software”) muovendo dall’idea di Web 2.0 come fenomeno psicosociale, oltre che tecnologico.

La lezione che le organizzazioni knowledge-intensive sono chiamate ad assimilare non è infatti solo quella delle “tecnologie” 2.0: n0n si tratta solo di nuovi pattern tecnologici (nell’ingegneria del software un design pattern – o schema di progettazione – è definito come “soluzione progettuale generale a un problema ricorrente”, fonte: Wikipedia); si tratta di nuovi pattern mentali, nuovi modi di pensare, di essere, di essere con gli altri, di lavorare.

L’Enterprise 2.0 non è perciò quella organizzazione che usa i social media come mero strumento per incrementare i flussi di comunicazione tra gli attori; è invece quella che riconosce nel 2.o più che una “soluzione progettuale  a un problema ricorrente”: il 2.0, tecnologie e mindset, è una rivoluzione progettuale in grado non solo di incrementare la comunicazione verso la soluzione di problemi ricorrenti; esso cambia il “pensare”, cambia l’orizzonte problemico, cambia l’idea stessa di “organizzare”.

Emergono passaggi critici, mai vissuti prima: dalla gerarchia alla contingenza, dall’autorità all’autorevolezza, dal potere per sé al potere come possibilità generativa. Qualcosa che tocca il leader: leadership 2.0 non è la “proprietà” esclusiva di una persona, ma un processo inclusivo di influenzamento all’innovazione.

È proprio questo il punto:  l’innovazione, il pensare qualcosa che non c’era. L’organizzazione chiusa strutturata sul comando-controllo viene sempre più spesso superata in capacità innovativa da modelli organizzativi aperti, auto-organizzanti; modelli di peer collaboration nati in ambienti visionari quali quelli dell’open software.

La visione che ora un buon leader deve elaborare è quella di creare, con i propri collaboratori, un’organizzazione non più “istituzione”, piuttosto un “istituente” in continuo divenire. Sarà semplice? Semplice quanto accettare che “leader” e “collaboratore” diventano posizioni di asimmetria contigente, reciproca.

La scelta del leader sta dunque tra il “potere” e la “possibilità”, tra il presente e il futuro. Chi innova sa che il presente tende già ad essere passato.

Provo a sistematizzare alcuni temi in queste slide:

Più che di tesi, si tratta di spunti. Al lavoro!

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