Paolo Bruttini

Formatore, imprenditore, psicosocioanalista, blogger, autore.

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Inconscio, telefonini e margherite

Un paio di mesi fa a Brescia in occasione del convegno annuale di Ariele psicoterapia e dedicato alla figura di José Bleger, ho assistito ad una relazione molto interessante. A tenerla è stato il mio amico Paolo Magatti, psicosocioanalista e consulente. Con l’intento di proporre una carrellata in merito all’applicabilità del pensiero di Bleger nel mondo organizzativo contemporaneo, l’Autore in un passaggio centrale ha sostenuto che la “la tecnologia è forse il nuovo luogo in cui depositare le parti psicotiche della personalità”. L’ipotesi è veramente importante ed ardita. Devo dire che non mi sorprende perché ho sostenuto concetti simili in questo ed in altri blog, dunque quello di Magatti è un contributo ad un dibattito aperto. Perciò sviluppo volentieri la discussione, partendo prima dal chiarimento del contesto in cui ci muoviamo.

Nel pensiero di José Bleger, le organizzazioni, le imprese, i ruoli che in esse interpretiamo sono il luogo cui gli individui depositano le proprie ansie psicotiche. Ovvero le dimensioni irrisolte della personalità troverebbero un adeguato “contenimento” nei luoghi di lavoro. Tale funzione di deposito è terapeutica, perché in questo modo le ansie che turbano i nostri fragili equilibri, sono opportunamente confinate e collocate, riducendo in questo modo il loro impatto negativo. Per tale motivo si dice che le imprese hanno una funzione difensiva. Fin qui José Bleger.

Nel contesto attuale noi assistiamo ad un fenomeno del tutto nuovo: le organizzazioni sono sempre più fluide, frantumante, flessibili tanto che questa funzione di deposito è fortemente compromessa. Non è un caso che il disagio dentro e fuori le aziende sia molto aumentato. Si pensino, ad esempio, ai tanti esempi di follia distruttiva nelle famiglie e nella società, di cui ogni sera al telegiornale sentiamo parlare. L’ipotesi che Paolo Magatti ha avanzato è che tale funzione venga oggi svolta dalla tecnologia.

Ho lungamente riflettuto su questo e credo sia vero solo in certe situazioni.

La tecnologia, come sostiene Galimberti, è un mezzo per colmare il gap tra il principio del piacere e quello di realtà. Assolve il ruolo di ridurre lo spazio ed il tempo tra l’insorgere del desiderio e la sua soddisfazione.  In taluni casi la tecnologia si presta ad un godimento dissipativo che ci allontana dagli altri verso posizioni narcistiche ed autistiche.

La tecnologia ha una dimensione generativa solo laddove diventa un mezzo per creare comunità di pari che condividono il medesimo scopo. Io credo piuttosto che siano queste comunità i nuovi luoghi in cui depositare le ansie psicotiche blegeriane. Le comunità trasversali, affettive o di condivisione di conoscenze o di pratiche rappresentano dei contenitori sostanziali che riconoscono i bisogni affettivi, individuali e danno sostegno. Le nuove tecnologie, gli smartphone oppure i software che consentono il social networking (intra aziendale e individuale) consentono e favoriscono l’accesso a questi nuovi luoghi di deposito, dunque facilitano l’attivarsi di questi nuovi meccanismi difensivi.

La novità significativa è che si moltiplicano questi luoghi di deposito, non essendovene più uno solo come l’azienda. La moltiplicazione dei luoghi e la loro instabilità produce indubbiamente degli effetti psichici rilevanti. Tuttavia ciò non è solo negativo. Nel passaggio dal politeismo greco e romano, al monoteismo cristiano si è generata una concezione unificante del reale che si riflette nell’idea moderna di identità. Nell’età liquida attuale è da costruire invece una concezione plurale del sé senza connotati patologici. Una margherita di possibilità per vivere il presente senza colpe.

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Progetti e gelati

Mi sto preparando per il prossimo colloquio di Ariele, Il coraggio del futuro, in cui condurrò insieme a Elisabetta Pasini il Workshop Apprendere l’innovazione dai giovani il prossimo 22 ottobre. La ricerca in rete mi ha condotto a questo bell’articolo di Carmen Leccardi che riflette su come cambia la concezione del tempo e della progettualità nell’età dell’incertezza.

Poiché “il futuro è lo spazio per la costruzione del progetto di vita” (p.1) cambiano molte cose se cambia la nostra concezione di futuro. Infatti quando l’incertezza supera una certa soglia  e citando Luhman, il futuro non ha più solide radici nel presente, allora fare progetti produce molte difficoltà. Il futuro si costruisce come una sequenza di eventi casuali che rendono sempre di più difficile portare a termine i progetti così come li abbiamo costruiti. Il superamento delle condizioni di certezza e prevedibilità (figlie della prima modernità), comportano una radicale revisione dei modi attraverso i quali noi costruiamo la nostra vita personale e professionale. Il futuro scompare, e si espande il presente che diventa il luogo in cui il soggetto compie un’esperienza che si autoregge: “ora ci si aspetta che (i periodi di tempo, ndc) traggano il proprio senso, per così dire, dall’interno: che si giustifichino senza alcuni riferimento al futuro o con riferimenti soltanto superficiali” (p.3). La citazione di Bauman conduce all’idea che per i giovani e per tutti noi il tempo si costruisce come una sequenza di eventi casuali che si assommano e acquisiscono senso solo attraverso una visione retrospettiva, che li unisce in una narrazione rivelatrice di significati. Appare chiara la “consunzione dell’idea di progetto” (p. 6) con il venir meno della continuità temporale.

Ho riflettuto su temi molto simili quest’estate in occasione della Festa della Scuola Coop, quando ho conversato con Alberto De Toni. All’autore dell’ottimo Auto-organizzazioni ho chiesto cosa ne pensava delle Leaderless Organization, il tema che ci sta a cuore in questo blog. La novità – dichiara De Toni – è rappresentata oggi dall’emergenza dal basso. Le organizzazioni nella complessità generano nuove energie ed opportunità dalla combinazione imprevedibile di risorse, anche alla base della piramide. Viene meno l’idea della progettualità organizzativa solo come processo top down: l’emergenza dal basso è generatrice di progettualità per così dire istantanea.

Il nuovo management deve imparare come gli adolescenti della Leccardi alle prese con un gelato, a concentrarsi su un’area temporalmente limitata per imparare a vivere il tempo come campo unificato soggettivamente controllabile. Le mete distanti temporalmente sono irraggiungibili ed è preferibile una visione di breve che consente di vivere le situazioni come chance più che come impedimenti. Pragmatismo, umiltà, apertura sono le doti che il mondo nuovo andrà premiando.

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L’arte del fallimento

Che cosa ha di speciale Charlene Li, osannata nuova Guru della Social Enterprise, 50.000 follower su twitter, speaker nella prossima edizione del World Business Forum e autrice del volume Open Leadership, uscito negli Usa lo scorso anno?

Con un titolo così appetitoso, mi sono buttato nella lettura delle oltre 300 pagine uscendone però con la sensazione dell’ennesimo testo a tesi, ben documentato ma tutt’altro che exciting. Di leadership tutto sommato se ne parla poco, semmai si parla di management e di come questo debba cambiare con le tecnologie social. Il fatto che il leader debba essere “autentico”, “trasparente”, “catalizzatore” lo possiamo considerare anche interessante, ma probabilmente non così semplice specie in culture diverse da quella anglosassone. Provo spesso questa insoddisfazione leggendo i volumi sulla social enterprise o il management 2.0. Mi sembra sempre che si tocchino gli aspetti marginali del problema e si tardi a focalizzare cosa c’è realmente di nuovo. L’arrivo di Charlene Li in Italia per un ciclo di conferenze il 31 maggio scorso poteva aiutarmi? Ho partecipato al suo seminario e ho avuto una sorpresa.

Il fallimento è inevitabile, bisogna diventare maestri nell’arte del fallimento”. Questa frase echeggiata circa a metà della conferenza è stata un pugno nello stomaco.

Probabilmente non solo per me, ma anche per quella platea di manager e specialisti presenti, nonché per tutti i pubblici che Charlene incontra in giro per il mondo. Il richiamo di Charlene a “non temere di perdere il controllo” e ad aprirsi, costruendo una open organization, ha una profonda implicazione personale. Non temere il fallimento poiché questo rappresenta l’altra parte, spesso rimossa, del successo (“Fail fast, fail smart” pare che sia il mantra in Google) è l’apprendimento che ho portato a casa. Il fallimento è doppiamente importante perché : 1) se non si rischia, innovando, oggi non si sopravvive. Se si innova è inevitabile anche che si fallisca. 2) il fallimento è un’occasione per imparare, soprattutto per chi ha fallito. Dunque si tratta di concepire il fallimento in modo diverso. Non è più un sintomo di perdita e di mancanza, ma una condizione necessaria per sopravvivere.

Tornando a casa, con la usuale sincronica coincidenza ho aperto il volume Governare l’inatteso di Weick, che reclamava le mie attenzioni da qualche mese. Nel capitolo quarto si parla di contenimento: un’azione necessaria laddove falliscano la previsione e l’anticipazione. Il contenimento previene esiti indesiderati dopo che un evento inatteso ha avuto luogo. L’organizzazione deve imparare ad essere rapida e mindful per reagire a situazioni impreviste. Insomma, traduco, il fallimento ci può essere e non ci deve spaventare. Ciò che conta in fabbrica, nei mercati, in rete è la capacità di reagire.

Adesso alcune domande ai lettori. Vi è mai capitato di fallire? Cosa avete provato? In definitiva è cambiato il vostro modo di vedere le cose a seguito di quel fallimento? Oggi lo considerate ancora così negativo?

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Indignazione, 2014

–       Per la prima volta, sì per la prima volta. Lo faremo per la prima volta. Una protesta clamorosa,

  • Ne parleranno tutti. I politici, la stampa. La gente nelle piazze. Saremo i primi.

–       Abbiamo sempre fatto gli scioperi

  • Sì, ma per difendere i nostri diritti, quelli dei lavoratori. Mai così, come una sfida frontale.

–       Una sfida alla proprietà, ai dirigenti.

  • Parla piano… mai così. Un attacco, un’indignazione collettiva.

–       Una sfida per difendere l’azienda, dai padroni, dagli azionisti. E’ assurdo

  • Sì è assurdo. Ma bellissimo. Una sfida contro l’incompetenza, la malafede.

–       Perché devono capire che basta, hanno stancato. Far fare carriera solo agli amici. Alle amanti. Non affrontare i problemi.  Non far le cose che vanno fatte.

  • Come trattano le donne poi… Una donna va bene se è una madre o una puttana.

–       Io ho deciso di rimanere qui. Non me ne sono andato 7 anni fa come… come si chiamava?

  • Ah…non mi ricordo. Credo sia a Montreal, ha aperto un negozio, mi ha scritto. E’ felice.

–       E’ felice…

  • Io non sono felice. Come si fa in queste condizioni…

–       Io ho una laurea ed un dottorato, ma qui dentro non conto nulla.

  • Perché non me ne sono andato? Avrei dovuto lasciarlo questo Paese.

–       Non conta il merito, la volontà, l’onestà. Guidano le loro Audi. Camminano su mocassini di marca. Scrutano allo specchio i loro volti glabri. L’alito sa di eucalipto.

  •  Ma è tutto un sistema. Sono così perché fuori è così. Non solo da noi.

–       Infatti. Ci siamo spinti troppo oltre. La gente non si riconosce più.

  • Dici così perché non guadagni a sufficienza. Se tu avessi più soldi in tasca, ti andrebbe benissimo questo sistema.

–       Sarei arrabbiato e stressato com’era mio padre. Schiavo del suo narcisismo. Consumatore, infelice e inconsapevole

  • Allora come faremo?

–       Occupiamo l’azienda. La facciamo funzionare noi. Parliamo con la proprietà e li convinciamo.

  • Che esiste un altro modo. Glielo facciamo vedere che esiste.

–       Qualcuno ci è già riuscito non siamo soli

  • Dobbiamo crederci. Correremo dei rischi.

–       Un altro bambino abbandonato in macchina.

  • E’ terribile, quella storia. Perché?

–       Sacrificare innocenti, per chiedere clemenza agli dei.

  • Noi non siamo più innocenti.

–       Siamo diventati adulti.

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Competere è bello

Il mio intervento sul tema della Social Enterprise (o enterprise 2.0) presso la corporate university di un cliente,  mi ha consentito di portare avanti alcune riflessioni che voglio condividere.

Vengo teorizzando nell’ultimo periodo nei blog in cui scrivo, in particolare qui e qui, la rilevanza del codice dei fratelli nella costruzione delle nuove culture P2P. Devo alla lezione di Giancarlo Trentini e di Massimo Bellotto, l’adozione dei codici affettivi di Fornari come chiave di lettura simbolica attorno alla quale si sviluppano le culture organizzative.  L’adozione di modelli up down, che fanno riferimento a capi che gestiscono collaboratori adottando la cultura del comando e controllo, implicitamente è inscritta in un paradigma che legge la realtà attraverso relazioni verticali. Relazioni analoghe a quelle che si vivono nel contesto famigliare in cui come figli ci relazioniamo a nostro padre (che ci chiede performance e rispetto delle regole) oppure a nostra madre (che ci cura e ci dona affetto senza condizioni).

Insomma è come se avessimo costruito sistemi organizzativi in cui il primato spetta a questi codici affettivi ed in cui l’altro codice affettivo, quello dei fratelli ha un ruolo inesistente (nelle burocrazie) oppure minore (nelle aziende tecnocratico manageriali).

La tesi che sostengo è che la rivoluzione P2P apre uno scenario in cui il codice dei fratelli acquisisce un rilevo equivalente a quello paterno e materno.

Lo studio del codice dei fratelli rivela che esso si articola in due dimensioni: una distruttiva ed una costruttiva. E’ evidente che tra fratelli vi sono sentimenti di gelosia e di invidia generati dalla competizione per ottenere l’amore dei genitori. Ho due figlie piccole e per me è assolutamente evidente. La più grande manifesta a tratti sentimenti di profonda insofferenza verso la sorellina, specie nei momenti in cui io e mia moglie ci prendiamo cura della piccola.

L’osservazione di mia figlia mi mostra anche la componente generatrice della fratria. I fratelli sono complici e sodali, imparano a divertirsi insieme se l’età rende possibile fare gli stessi giochi. Questo aspetto è molto interessante. Mi considero un formatore soprattutto, ed è molto interessante vedere nelle aule come non appena si propone un gioco le persone si attivano e “competono”. Lasciandosi andare emergono spesso, anzi sempre i meccanismi competitivi a somma zero, caratterizzati da carico (adrenalina da competizione) e scarico energetico (euforia per la vittoria, oppure depressione per la sconfitta) così come Reich ce li ha insegnati. Sistematicamente arriva il “bravo formatore” che dà una tirata d’orecchie agli allievi e li riporta al dovere di un approccio più razionale e consapevole della teoria e dell’approccio di turno. Gli oltre 200 dilemmi del prigioniero che ho condotto (in almeno 10 varianti) e l’osservazione che nel 95% dei casi prevalgono le dinamiche competitive mi induce a pensare che dietro debba esserci un motivo profondo. So anche che da qualche parte ci sono studi che dimostrano che la cooperazione è la dimensione “naturale” dell’uomo, ma per il momento non voglio considerarli. Lavoro su questa ipotesi e sostengo che la competizione (tra fratelli) è fonte di energia psichica. La competizione tra fratelli sviluppa energia psichica e quindi “tira fuori dal nido”. Il superamento del caldo abbraccio della famiglia è possibile perché la fratria costringe a superare i propri limiti e a crescere. Allora è evidente che la fratria è una fonte di apprendimento. In questa learning era, in cui lo sviluppo è possibile solo se si generano positive spirali di sviluppo della conoscenza e dell’innovazione acquisisce peso il codice dei fratelli.

Dunque nell’età della globalizzazione si generano le condizioni per l’affermazione del codice affettivo in cui l’apprendimento, la collaborazione, l’iniziativa dal basso sono maggiormente valorizzati.

Concludo con la meravigliosa immagine proposta da una partecipante nel finale del corso. Facendo un’analogia con le bellissime sculture di Modigliani esposte al Mart e che abbiamo visto mercoledì 23 marzo, la signora ci ha detto: la leadership del futuro è femmina. Da un lato rotonda ed accogliente (e orientata alla forma pura NdA), dall’altro ruvida, tagliata con percorsi netti, non finita.

Un’intuizione felice che disegna un itinerario per capire come cambia la leadership nei nuovi scenari. Ne riparleremo prossimamente.

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Fratelli d’Italia

Se parliamo di organizzazioni, senza leader, o meglio senza capi, allora bisogna chiedersi che fine fanno i capi. Poiché è facile immaginare che organizzare risorse significa fare i conti con il potere, organizzazione e management sono cose procedono di pari passo. Ma noi sosteniamo in queste pagine che le strade possono divergere, dunque il problema è dove vanno a finire i capi, quelli che c’erano prima, all’inizio della storia.

Mi sono posto questa domanda perché sto leggendo il bel volume di Kaes Il complesso fraterno edito presso Borla (2010). Sono arrivato a questo volume per un’intuizione che riguarda il legame tra i codici affettivi e le organizzazioni 2.0. Mi sembra che se le organizzazioni tradizionali del tipo comando e controllo sono caratterizzate dai codici paterno e materno, lo stesso non si possa dire delle nuove organizzazioni. Sono paterne le organizzazioni in cui prevale la performance o il rispetto delle regole. Materne quelle in cui prevale la cura e la solidarietà. Mi sono confrontato con il mio amico Massimo Bellotto autore nel 1991 insieme a Giancarlo Trentini del bel modello sulle culture organizzative da cui ho tratto questa concezione. Concordiamo nel ritenere che il nuovo scenario preveda l’avvento di un nuovo codice affettivo: quello fraterno. Stiamo cioè assistendo allo sviluppo in questa nuova fase di modelli relazionali non più ispirati ai codici affettivi propri del triangolo edipico (paterno e materno) ed al complesso corrispondente, per usare un linguaggio psicoanalitico.  Le nuove organizzazioni vedono il prevalere di un altro complesso la cui natura è ancora oggetto di studio: il complesso fraterno.

Nella lettura che ne dà Kaes il complesso fraterno è un organizzatore psichico inconscio del legame fraterno. Il legame fraterno è il rapporto affettivo che si stabilisce con i pari, nei gruppi, all’insegna della cooperazione, ma anche della rivalità, del conflitto e della solidarietà.  La tesi ardita dell’autore è che tali relazioni, che noi conosciamo o che abbiamo sperimentato, derivino da un complesso (fraterno) di importanza analoga a quello di altri complessi oggetto dell’indagine psicoanalitica: quello edipico sopra tutti. In altre parole questo significa che il nostro abitare le nuove organizzazioni P2P ha a che fare con il rapporto che ognuno di noi ha con i fratelli, reali o immaginari, che abbiamo interiorizzato. Intrusione, rivalità, invidia, gelosia, desiderio, sfida sono le dimensione che la fratria ci impone di considerare.

Un tema importante è anche l’elaborazione della morte dei genitori, che rappresenta la dimensione di confine tra i vecchi ed i nuovi modelli organizzatori del legame in una famiglia. L’analogia con l’impresa è del tutto necessaria. Introdurre i temi P2P in un’azienda significa fare i conti con la scomparsa delle figure paterne o materne. Padri e madri che potrebbero non aver nessuna voglia di cedere il passo, e dunque importare nella scena psichica fantasie di persecuzione e vendetta. Questo è il motivo per cui le community di certe aziende repressive non decollano, nonostante le buone pratiche di coinvolgimento di gruppi di redattori, autocandidati come promotori della community stessa. Questo può essere uno dei motivi per cui si teme di esprimere il proprio punto di vista, concependo una relazione non solo gerarchica, verso padri e madri che non ci stanno a farsi da parte. Questo è il motivo dell’energia esorbitante che ho rilevato personalmente nelle poche imprese autenticamente 2.0 in Italia. Casi isolati che sono possibili perché i capi si pensano, usando il nostro linguaggio, più come fratelli maggiori, che come padri (o patrigni). Pronti a favorire l’espressione, la scoperta, il desiderio, il divertimento. Pronti a  fare i conti, con l’invidia, la gelosia, la rivalità che la relazione tra fratelli comporta.

Allora mi viene da dire “svegliamoci” come diceva Benigni nella serata sanremese. Libertà, uguaglianza e fraternità nel segno di una rivoluzione di pari.

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Sono un ladro

Chissà quante volte è successo. Magari non me ne sono nemmeno accorto. Di imitare, copiare, citare, senza essere consapevole, oppure, con colpa, di non avere verificato abbastanza le fonti. I miei amici mi dicono “stai sereno”, ma io no, proprio non ci riesco.

Aladino.

La recente polemica in rete tra Quintarelli e Prunesti,  pone nuovamente il tema della proprietà delle informazioni del web. Le posizioni sono note. Si possono riprendere i contenuti altrui, ma si devono citare le fonti. Comunque non bisogna esagerare, nel riprendere e citare, altrimenti qual è il valore aggiunto? Basta guardare l’originale ed è meglio. Allora è un problema di misura? Ci ho pensato a lungo ed è difficile trovare una risposta. Mi sono ricordato di Max Weber e delle 2 etiche. E’ etica della responsabilità la presa in carico dell’effetto delle proprie azioni sugli altri. L’etica dell’intenzione è l’autonoma determinazione di un soggetto ad affermare un principio che crede giusto a prescindere dalle posizioni altrui. Dunque se sia giusto o meno rubare in rete è un problema o un’opportunità in funzione dell’etica a cui si aderisce. Ragioni di eleganza e di stile mi fanno preferire un approccio responsabile. Nel lungo periodo i valori (quasi) sempre emergono.

Ma vi è un’altra questione.

Carlo Maria Cipolla nel divertente saggio Allegro ma non troppo costruisce una teoria generale della stupidità umana. Presto ci abbandona l’idea consolatoria che noi siamo di qua e gli stupidi sono dall’altra parte della staccionata. La stupidità è parte di noi ed emerge continuamente. Allora penso che i comportamenti umani vadano letti alla luce non solo di etiche che nascono dall’idea di un uomo forte che è in grado di scegliere e governare il proprio destino. Ma vi è anche l’irresponsabile ed inetta stupidità che fa della nostra vita una commedia. Allora che ne facciamo degli stupidi? Non siamo noi tutti stupidi in qualche momento? Stupidi e ladri?

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950 grammi di potere

950 grammi di potere, un concentrato di rabbia distillato in capsule di piombo, un simbolo dell’Ordine e della Verità. Lo abbiamo visto tutti e ci siamo schierati con i buoni, oppure con i cattivi. Ci siamo schierati senza potere o voler capire, affrettandoci a parlare di ritorno degli anni ’70. Ma oggi molto è cambiato.

Il post precedente ha avuto molti riscontri. Qualcuno ha lasciato commenti, altri mi hanno scritto personalmente. Altri hanno telefonato. E poi, a poche ore di distanza, i fatti di Roma.

In un bellissimo saggio sulla fotografia dal titolo “Camera chiara” Roland Barthes parla del punctum. Un fotografo dovrebbe chiedersi qual è il dettaglio che attira l’attenzione dell’osservatore, l’elemento perturbante, qualcosa che rivela una verità da interpretare.

Ormai sono molti giorni che questa foto è stata pubblicata, ma non posso fare a meno di continuare a guardare quel punto: la mano con la pistola. E’ il centro di un vortice di corpi, urla, sudore, rabbia, dolore, paura. Davanti al grembo del poliziotto, l’arma è un oggetto sacro, generatore nella sua immobilità di un gorgo di pulsioni bestiali. Il suo titolare la trattiene, come un sacerdote, come un martire.

Ma cos’è la pistola? Un potere violentissimo e distruttivo che l’istituzione conserva nel suo grembo, come gli dei conservavano il fuoco prima di Prometeo. Un simbolo da contendere ad un potere che nega e che si intende violare, umiliare e offendere. Un diritto di affermare il proprio esistere, attraverso la possibilità di negare l’altro.

Quell’arma è la nostra arma. La possibilità di uscire dai propri schemi mentali, dalle proprie abitudini, dalle proprie idee rifugio. L’arma è un feto abnorme partorito dalle violente contraddizioni del nostro tempo. Ad attenderla non c’è il sorriso rassicurante della levatrice, ma il caos primigenio ed indifferenziato. Attraversare il caos, come i maestri ci hanno insegnato, rende possibile il cambiamento. Nella prospettiva di un Natale di quiete, quest’anno sotto la neve del Presepe, si risvegliano gli istinti di lotta.

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La generazione assente

Apprendere è il modo di affrancarsi dalla malattia mentale, dalla disperazione, dalla solitudine. Questo è il messaggio del piccolo e pluripremiato Precious, film di Lee Daniels. Una disperazione che entra nell’anima dello spettatore e lo lascia attonito nell’impotenza verso “tutte le Precious del mondo” a cui il film è dedicato. Sono uscito con l’idea che, a differenza di quanto succedeva in passato almeno a me, Precious non è un caso limite. I giornali la tv, ma anche gli psicologi gli assistenti sociali che conosco, mi raccontano continuamente storie di degrado, di abbruttimento come questa. Non a caso il cinema, che è specchio dell’inconscio collettivo, narra queste vicende con sempre maggior frequenza e fedeltà chirurgica. La rimozione è un meccanismo di difesa ormai socialmente inadeguato, oppure più positivamente forse è e deve essere sempre maggiore la capacità di pensare queste tragedie (come direbbe Bion, esercitare la funzione Alfa). Raramente come in questo film ho visto insieme il dramma e la speranza. La speranza è un fiore che nasce nel gelo di relazioni malate (ma cos’è la malattia?). La speranza, dice l’autore, è generata dalla cura di un insegnante amorevole che restituisce il senso della dignità attraverso la capacità di parlare di sè. Attraverso il metodo autobiografico la protagonista scopre i suoi progressi e soprattutto il senso di cittadinanza in un mondo in cui è legittimo dire la propria (interrogata in aula a 16 anni afferma “è la prima volta che parlo in classe”). Significa anche imparare a riflettere sul senso comune quando si scopre che sono i diversi, gli omosessuali, a trattarla bene e non quelli normali che hanno abusato di lei, maltrattato il figlio, e cercato di corromperla con la droga.

La mia serata si è conclusa chiacchierando con un amico, AD di una multinazionale. Mi ha confermato quello che ho intuito ormai da un po’ di tempo: l’ineluttabile decadenza della manifattura europea ed italiana, lo spostamento verso Cina e India, laddove non solo i prezzi sono molto, molto più bassi ma la qualità è ormai pari o superiore alla nostra. Insomma la fine di un’epoca.

Abbiamo concluso dicendo che la  nostra generazione (abbiamo entrambi 45 anni) si è dedicata più a se stessa che alla politica, consentendo il collasso strategico e valoriale del nostro Paese.

E adesso Preciuos ci presenta il conto.

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Spazio intermedio

In quella banca d‘affari tutti parlavano dell’andare all’estero, dell’internazionalizzazione, come di un salto logico, un’avventura, un azzardo. Un viaggio verso l’ignoto, lontano dalle rassicuranti geometrie della terra madre, laddove le regole gli idiomi sono famigliari e non si è uno dei tanti. Tutti ne parlavano come si parla delle terre nemiche prima di una guerra sognando onori e temendo sventure. Andare all’estero sembrava per tutti rappresentare l’unico modo per sopravvivere.

Mi mancavano le parole per esprimere ciò che sentivo in quella consulenza. Sapevo che si stava parlando dell’Altrove, del contatto con lo Straniero, con l’Altro. Ma cos’è questa terra che non è la terra Madre, che il luogo in cui ci si perde e si riguadagna se stessi, in cui si smarriscono regole note e si conquistano nuovi significati?

La lettura di un testo di Sergio Vitale mi ha aiutato a comprendere che stavo cercando lo Spazio Intermedio. Nel tempo contemporaneo il viaggio è privo della sua conclusione. “E’ svanita l’idea di un ingresso ed un’uscita in quanto estremi della condizione intramondana. Acquista importanza assoluta la medietà come carattere costitutivo dell’esistenza, il nostro <<stare nel mezzo>> da sempre in vista delle cose ultime e nell’impossibilità di raggiungerle” (pag.13)

Il tempo non è più storia (il tempo non è più ciclico, come nella società antica, o freccia, come nell’età industriale), ma successione di frammenti. La prospettiva di non raggiungere un fine, ci consegna alla necessità di sviluppare un’incessante capacità interpretativa, in grado di cogliere sempre nuovi significati dietro o sotto la realtà fenomenica.

Una visione pessimista? Può darsi. Però colgo un’analogia tra lo spazio intermedio frammentato e ricorsivo con lo spazio in rete. Uno spazio che come disse Kracauer è “un universo inesauribile la cui interezza sfugge perpetuamente” (Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, 1960).

Mondo Novo, Gianbattista Tiepolo, 1791

Una vertigine che non si può sfuggire, altrimenti si sta a guardare come fanno le maschere in questa strana e geniale opera di Tiepolo (che il mio amico Paolo Izzi mi ha fatto conoscere) che rappresenta la riluttanza di Venezia ad affrontare il mondo nuovo.

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